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Verona, Arena Opera Festival 2021 – Aida

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Parafrasando una battuta di Maria Callas, nei grandi teatri dovrebbero arrivare artisti fatti, non da fare. Quando Diego Matheuz, uno dei tanti prodotti del “sistema Abreu”, fu chiamato alla Fenice per ricoprire il ruolo di direttore principale aveva 27 anni e, in curriculum, qualche concerto sinfonico e un’unica esperienza in campo operistico. Consentirgli di farsi le ossa nel grande repertorio lirico – in un teatro di prestigio e con quell’incarico – fu un atto di fiducia eccessivo. Anche se qualche critico ebbe l’improntitudine di definirlo il “nuovo Muti”, l’inesperienza teatrale e la personalità interpretativa ancora in fieri si tradussero di fatto in concertazioni e direzioni discontinue. E alla Fenice, molto prudentemente, si limitarono ad affidargli le riprese di spettacoli collaudati, non le inaugurazioni di stagione o i nuovi allestimenti di opere del grande repertorio. Non che a Matheuz mancasse il talento. Aveva un gesto chiaro, entusiasmo, energia, si percepiva la sua intenzione di far fare a orchestra e palcoscenico quel che musicalmente aveva in mente. Il problema è che, nel corso di quelle stagioni veneziane (dal 2011 al 2015), non si è mai capito quali fossero il suo pensiero e le sue idee in materia di melodramma ottocentesco e verdiano in particolare.

Dopo averlo perso di vista per qualche tempo, lo ritroviamo ora trentaseienne sul podio dell’Arena di Verona a dirigere Aida. E non si può dire che la sua concezione interpretativa di Verdi, rispetto a qualche anno fa, sia divenuta più precisa o interessante. Non si riesce a cogliere né l’adesione a un modello direttoriale, né il ricorso a scelte che lo portino a rifarsi a una particolare tradizione interpretativa, o magari a sganciarsene. Siamo di fronte alla solita conduzione impulsiva, a tratti incalzante, contrastata nei tempi e nelle dinamiche, che sfocia in una lettura non sempre a fuoco dal punto di vista espressivo. Senza dubbio Matheuz ha il merito di mantenere in discreto equilibrio il rapporto tra voci e orchestra: non tutto fila liscio, ma almeno non si notano i vistosi scollamenti con il coro collocato sulle gradinate di sinistra che si sono verificati alla “prima” del dittico Cavalleria/Pagliacci. Resta nondimeno l’impressione di una direzione incline al gusto dell’effetto fine a se stesso, dove momenti di grande tensione ed estroversione si alternano ad altri espressivamente generici, priva di una visione di insieme come pure di un indirizzo preciso a livello di concertazione vocale. In pratica, da parte di Matheuz non c’è alcun intervento sul fraseggio dei cantanti: tutti sono liberi di fare quello che vogliono e, in assenza di una linea interpretativa a cui attenersi, possono disattendere tranquillamente i segni d’espressione, o cantare in pieno stile verista.

È il caso di Jorge de León, un Radamès stentoreo dalla voce robusta e timbricamente non certo sopraffina, oscillante già nel registro centrale, forzata e a volte fibrosa negli acuti (vedi il si bemolle di “vicino al sol” in “Celeste Aida”). Carente di senso del lirismo, il tenore spagnolo canta tutto forte, con gusto tipicamente verista. Un ventaglio di colori e modulazioni piuttosto ristretto emerge anche dal canto di Angela Meade, ben poco convincente nei panni di Aida nonostante un materiale vocale di prim’ordine per timbro, volume e rotondità. Nulla fa pensare che siamo di fronte a una cantante che frequenta sistematicamente il repertorio belcantistico: fraseggio e accento sono poco approfonditi, le sfumature e gli assottigliamenti (spesso affetti da vibrato) sono ridotti al minimo sindacale e il do di “O cieli azzurri” è addirittura emesso fortissimo anziché pianissimo. Non brilla nemmeno Anita Rachvelishvili, che non attraversa un momento di grande forma vocale per via dello stato di gravidanza (la settimana precedente aveva rinunciato alla prima recita dell’Aida diretta in Arena da Muti). Il mezzosoprano georgiano sarebbe una Amneris di lusso, ma qui deve fare i conti con emissioni disomogenee nel registro medio-grave ed evidenti affaticamenti in quello acuto. Quanto a Luca Salsi, è un Amonasro solido e professionale ma come sempre, quando si trova in contesti esecutivi in cui manca l’impronta di un vero concertatore, tende a fraseggiare con poca nobiltà e a “veristeggiare”. Bene i due bassi. Inutile dire che Michele Pertusi è un autorevole Ramfis, anche se era parso più incisivo con Muti nel ruolo del Re. Il quale Re è qui sostenuto con voce risonante da Simon Lim. Bravo Riccardo Rados, un messaggero, funzionale Yao Bohui come Sacerdotessa.

Poco da dire infine sull’allestimento. La formula è la stessa del dittico Cavalleria/Pagliacci. Il palcoscenico è dominato dall’imponente led wall sul quale scorrono questa volta le fotografie dei tesori conservati al Museo Egizio di Torino e le immagini in 3D di elementi architettonici o paesaggistici che definiscono di volta in volta i diversi ambienti in cui si svolge la vicenda. I costumi reperiti nei magazzini della Fondazione e gli oculati movimenti registici a cura delle maestranze areniane contribuiscono a dare allo spettacolo una impronta saldamente tradizionale. Non mancano soluzioni convenzionali né tratti oleografici, ma l’operazione è nell’insieme efficace e funzionale, tanto più in una stagione di transizione come l’attuale.

Arena di Verona – 98° Opera Festival 2021
AIDA
Opera in quattro atti
Libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di Giuseppe Verdi

Il Re Simon Lim
Amneris Anita Rachvelishvili
Aida Angela Meade
Radamès Jorge de León
Ramfis Michele Pertusi
Amonasro Luca Salsi
Un messaggero Riccardo Rados
Sacerdotessa Yao Bohui
Prima ballerina Eleana Andreoudi

Oochestra e Coro dell’Arena di Verona
Direttore Diego Matheuz
Maestro del coro Vito Lombardi
Video design e scenografie digitali D-WOK

Verona, 26 giugno 2021

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