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Venezia, Teatro La Fenice – Rinaldo

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Dopo oltre trent’anni, è tornato al Teatro La Fenice il Rinaldo di Händel nel celebre allestimento di Pier Luigi Pizzi. Uno spettacolo nato nel 1985 per il Valli di Reggio Emilia – e ripreso nel tempo in diversi altri teatri – che a ragion veduta può definirsi storico. A partire dagli anni Settanta, Pizzi è stato infatti il primo reinventore di macchine teatrali barocche e Rinaldo rappresenta in un certo senso la summa delle sue produzioni in questo repertorio: un esempio di trascrizione del teatro barocco che all’epoca ha fatto sensazione per la sua spettacolarità alimentata da precisi riferimenti culturali.

Il ricorso a una fine machinery, a un macchinismo traboccante di effetti spettacolari, giustificati dal carattere magico, oltre che moralistico, della vicenda ricavata da Aaron Hill dalla Gerusalemme liberata di Tasso e versificata da Giacomo Rossi, caratterizzava anche la prima, sontuosa messa in scena londinese dell’opera al Queen’s Theatre di Haymarket nel 1711. Curiosamente quell’allestimento, stando al resoconto e agli ameni commenti di Joseph Addison, fondatore di The Spectator e considerato il padre del giornalismo inglese, peccava di eccessivo realismo e soluzioni sceniche stucchevoli (tra cui, alla canzone degli uccellini di Almirena, lo svolazzare di passerotti veri). Da parte sua, Pizzi reinventa il senso dello spettacolo barocco all’interno di una visione onirico-fiabesca che vede nelle opere di Händel delle narrazioni fantastiche, libere dal peso di complicazioni realistiche e psicologiche.

L’idea su cui poggia la sua operazione è quella di far vedere gli artifici della macchina barocca e di umanizzarla. Ecco allora che i cantanti vengono trasportati a vista su piedistalli mobili da uno stuolo di mimi nerovestiti che, simili a ombre, fanno volteggiare i personaggi in costumi fastosi come fossero statue, agitandone gli ampi mantelli, in un movimento che va di pari passo con la musica: alle sezioni delle arie tripartite corrispondono altrettante, diverse posizioni sceniche, secondo una geometria di movimenti sempre rispondenti agli interventi strumentali. La scena è dominata dal nero marmoreo di una parete con porta centrale e nicchie laterali: una facciata secentesca, ora reggia, ora antro magico, che spostandosi verso il fondo articola variamente lo spazio scenico. Si aggiungano i cavalli barocchi, i draghi di Armida, le sirene, gli splendidi, coloratissimi costumi e si avrà il senso di uno spettacolo stilizzato eppure sontuoso. Il gioco delle allusioni visive rimanda in particolare a certa pittura fiamminga e olandese, anche se i riferimenti alla luminosità di Van Dyck e alla potenza di Rubens sono resi meno evidenti, in quest’ultima ripresa veneziana, da un gioco di luci freddo e meno calibrato rispetto alla produzione originaria. Certo, oggi siamo abituati a letture sceniche dell’opera barocca molto diverse e più approfondite sul piano registico, e il senso di meraviglia e stupore che all’epoca prendeva lo spettatore di fronte a queste immagini fantasmagoriche ora risulta in parte ridimensionato. Tuttavia l’allestimento, che pure mantiene una sua suggestione, va contestualizzato nel periodo in cui è venuto alla luce e, in questa prospettiva, deve essere considerato una pietra miliare nella rinascita del teatro barocco: uno spettacolo cui nessuno potrà mai togliere la patente di storicità.

A proposito di storia, come già a Londra nel 1711, dove cantava il castrato Nicolò Grimaldi detto Nicolino, l’esecuzione veneziana del 1989 era “costruita” attorno alla parte dell’eroe eponimo e affidata alle risorse canore di Marilyn Horne. Il grande mezzosoprano statunitense non era più all’apice della forma vocale, ma si trattava pur sempre della Horne: un’autentica virtuosa, la cantante che più di ogni altra aveva contribuito a rilanciare nel Novecento il mito del contraltista evirato, visto come eroe e amoroso, recuperandone se non proprio la fantastica irrealtà della voce (in questo sono relativamente più “filologiche” le voci degli attuali controtenori), per lo meno lo straordinario virtuosismo vocale.
Questa volta, alla Fenice, c’è Teresa Iervolino, un mezzosoprano che da qualche anno è ormai una garanzia del repertorio barocco (oltre che rossiniano) e possiede senz’altro le qualità vocali e interpretative per sostenere la parte di Rinaldo. Un ruolo impegnativo, fra l’altro, che prevede una decina di numeri fra arie e duetti. Iervolino si trova a suo agio nelle pagine in cui il personaggio appare come un eroe amoroso, combattuto fra il dovere militare e il desiderio dell’amata, dove può dispiegare la sua voce ben timbrata e calda, giocare sugli accenti languidi e patetici. Autorevole anche nei passaggi che esprimono ira e sdegno, la cantante risolve agevolmente i rapidi vocalizzi dell’aria di bravura che chiude il primo atto, “Venti, turbini, prestate”. Brillantezza e mordente maggiori si desidererebbero invece nei vorticosi, ardui passi di agilità di “Or la tromba”, il momento più virtuosistico dell’opera dove la voce del protagonista sfida con le sue colorature le figurazioni della tromba.
Timbro gradevole, emissione corretta e adeguata sensibilità interpretativa contrassegnano l’Almirena di Francesca Aspromonte. A livello di fraseggio e accento, tuttavia, l’interprete indirizza la pateticità e la dolcezza del personaggio verso una dimensione di consapevole fierezza, che toglie un po’ di abbandono al celeberrimo lamento “Lascia ch’io pianga” e non restituisce appieno la levità arcadica di una pagina come “Augelletti che cantate”. Discontinua l’Armida di Maria Laura Iacobellis, che nell’aria d’entrata (“Furie terribili”), come in altri momenti di “furore”, manca di incisività e pienezza di suono. Altrove si fa valere per il fraseggio espressivo e l’immedesimazione, ma pesa nel tratteggio complessivo anche la tendenza alle emissioni fisse e un po’ calanti.
Il giovane Tommaso Barea supera il cimento nei panni di Argante, ruolo concepito da Händel per le capacità di Giuseppe Maria Boschi, il più celebre basso del primo trentennio del ‘700, e che in epoca moderna solo Samuel Ramey ha saputo restituire a tutto tondo e in modo elettrizzante. Barea esibisce comunque giusta protervia e una voce ben timbrata in tutta l’estensione, e risolve i lunghi passaggi vocalizzati di “Sibilar gli angui d’Aletto” con slancio, fiati adeguati e buone agilità.
Goffredo è Leonardo Cortellazzi, come sempre professionale e corretto, ma a disagio nelle agilità dell’aria “Solo dal brando”. Completano decorosamente la locandina William Corrò, Mago Cristiano, Valentina Corò e Marilena Ruta, Donne/Sirene, e Li Shuxin, Araldo.

Federico Maria Sardelli dirige la partitura – nella versione “mista” 1711-1731 – con spiccato senso teatrale. Imprime allo strumentale duttile e fantasioso di Händel una amplificazione persuasiva, privilegiando tuttavia in modo un po’ troppo accentuato l’aspetto marziale dell’opera a scapito della corda elegiaco-patetica. La drammatizzazione forse eccessiva del Largo “Cara sposa” cantato da Rinaldo e la carenza di abbandono nel citato lamento di Almirena dipendono anche dalla sua concertazione (né si può dire che il direttore abbia fatto molto per agevolare Iervolino in “Or la tromba”). Da ricordare il travolgente accompagnamento al cembalo di Giulia Nuti nell’aria di Armida “Vo’ far guerra”.

Teatro La Fenice – Lirica e balletto 2020/21
RINALDO
Opera seria in tre atti
Libretto di Giacomo Rossi su una sceneggiatura di Aaron Hill
Musica di Georg Friedrich Händel

Goffredo Leonardo Cortellazzi
Rinaldo Teresa Iervolino
Almirena Francesca Aspromonte
Argante Tommaso Barea
Armida Maria Laura Iacobellis
Mago Cristiano William Corrò
Donna/Due Sirene Marilena Ruta, Valentina Corò
Un araldo Shuxin Li

Orchestra del Teatro la Fenice
Direttore Federico Maria Sardelli
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Assistente regista e light designer Massimo Gasparon

Venezia, 31 agosto 2021

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