Il Fidelio di Ludwig van Beethoven – avvertono gli artefici della nuova produzione che ha inaugurato con grande successo la stagione del Teatro La Fenice – non è solo un’opera sulla potenza dell’amore coniugale. Per Myung-Whun Chung, impegnato sul podio, è anche un inno alla fratellanza, all’amore assoluto, un appello alla libertà valido in ogni tempo. Per il regista Joan Anton Rechi la storia d’amore e la componente intimista si intrecciano invece con l’intrigo politico, non senza rimandi alla dimensione mitologica.
Non si tratta certo di chiavi di lettura inedite: Fidelio si muove su piani teatrali, musicali ed espressivi diversi, con una struttura troppo complessa per sopportare la riduzione a uno solo di questi piani. L’unica opera teatrale composta da Beethoven – faticosamente rielaborata fra il 1805 e il 1814 – è ambientata a Siviglia, ma si ispira a un fatto realmente accaduto durante la Rivoluzione francese. L’intreccio, nella sua semplicità, è intriso di politica: Florestan viene imprigionato ingiustamente. La moglie Leonore, travestita da uomo e col nome di Fidelio, ottiene il posto di aiuto carceriere. Dopo aver puntato la pistola al petto del tiranno, riuscirà a strappare lo sposo alla morte grazie anche all’intervento di Don Fernando, ministro di Stato. Non solo. Il suo gesto indurrà il ministro a liberare tutti i prigionieri. Musicalmente, la partitura evolve da una garbata dimensione di opera “comica” fino alla massima tensione tragica. E si risolve in una esaltazione della fedeltà coniugale, ma anche degli ideali di libertà e giustizia. Quando Beethoven scrive e rielabora Fidelio, queste idee partite da Parigi avevano sconvolto l’Europa. Con lui, tuttavia, diventano un messaggio universale che tocca temi altissimi e va al di là delle epoche.
Nella sua lettura, Myung-Whun Chung sembrerebbe raccogliere, inizialmente, l’eredità di quella tradizione di epica grandiosità che tende a esaltare il clima severo e drammatico di Fidelio. Il direttore apre infatti l’opera con la Leonora n. 3, la più possente delle quattro Ouverture composte da Beethoven per questo lavoro: brano che non a caso si chiude con una impronta epica e visionaria, per la verità contrastante con le scene iniziali dell’opera. Poi però, nel corso dell’esecuzione, ci si accorge che certe atmosfere tetre e angosciose vengono stemperate e che la solennità, l’ampiezza di un Furtwängler e le pulsazioni drammatiche di un Toscanini sono solo un pallido ricordo. È probabile che l’intenzione di Chung sia quella di un restituire un Beethoven calibrato nei contrasti dinamici ed espressivi, meno romanticizzato, più umanista e prossimo al classicismo. Ma l’impressione è che l’interpretazione non sia del tutto centrata. Tant’è vero che Chung – soprattutto nella prima parte – non mette a fuoco nemmeno caratteri e strutture del Singspiel che pure appartengono all’opera e, in alcuni momenti, richiederebbero colori, intensità e ritmi di matrice mozartiana. Per non parlare dei rimandi a Gluck e Cherubini, noti modelli beethoveniani che il maestro coreano non tiene in debita considerazione.
La vocalità di Leonore-Fidelio crea qualche disagio a Tamara Wilson nella zona medio-grave. La parte gravita infatti prevalentemente sul registro centrale, dove il soprano statunitense denota scarsa consistenza (negli insiemi la Marzelline della Bakanova esibisce, al confronto, centri molto più sonori e timbrati). Più agevole la salita agli acuti, anche nell’impervia stretta della sua grande aria, dove tuttavia i suoni non sono sempre timbricamente gradevoli. Wilson è comunque immedesimata, ha all’attivo un fraseggio espressivo, specie sul versante intimo-patetico, e il suo personaggio a conti fatti regge.
Non così il Florestan di Ian Kozira. All’inizio il tenore americano si sforza di modulare e sfumare; si capisce che non ha una vocalità da drammatico, ma in un ruolo che pur anticipando alcune caratteristiche dell’Heldentenor si riallaccia alla tipologia del tenore mozartiano (Tamino in particolare), questo non sarebbe di per sé un problema. Il punto è che Kozira si dimostra ben presto in grave sofferenza negli acuti e, giunto al finale della sua aria, cola letteralmente a picco. Ci auguriamo si tratti solo di una indisposizione (comunque non annunciata), diversamente non si spiegherebbe una presenza così problematica.
Pregevole il cosiddetto terzetto “borghese”. Ekaterina Bakanova, dell’intero cast, è quella che forse assolve meglio il suo compito: se le emissioni sono ben timbrate e corrette in tutta la gamma d’estensione, l’interprete fraseggia con grazia, espressività, sottraendo il personaggio di Marzelline a ogni possibile petulanza e connotazione farsesca. Convincenti anche Tilmann Rönnebeck, umanissimo Rocco, e Leonardo Cortellazzi, corretto e brillante Jaquino.
Nel ruolo di Don Pizarro, Oliver Zwarg si distingue, più che per la qualità del canto, per l’accento efficace e il fraseggio incisivo. Decoroso, nel beve cameo di fine opera, il Don Fernando di Bongani Justice Kubheka. Puntuali gli interventi di Dionigi D’Ostuni, primo prigioniero, e Antonio Casagrande, secondo prigioniero. Il coro preparato da Claudio Marino Moretti, stranamente, risulta meno autorevole rispetto al suo standard abituale.
Lo spettacolo, nelle intenzioni di Joan Anton Rechi, vorrebbe essere realistico e al tempo stesso allusivo e simbolico. Tuttavia, contrariamente a quanto affermato dallo stesso regista, la caratterizzazione scenica “spagnola”, la dimensione politica della vicenda e i presunti rimandi mitologici – secondo i quali Fidelio sarebbe una specie di Orfeo ed Euridice al contrario, dove è la moglie a scendere nelle profondità della terra per ritrovare lo sposo – restano, appunto, nel limbo delle intenzioni. Le scene di Gabriel Insignares, con la grande testa di statua reclinata che domina il primo atto e i cerchi concentrici che definiscono la prigione nel secondo, risultano ben poco evocative, così come i costumi di foggia novecentesca realizzati da Sebastian Ellrich. Il lavoro registico di Rechi, infine, è piuttosto generico e fa abbastanza poco per riscattare la già statica teatralità dell’opera.
Alla prima, applausi festosi per tutti, acclamazioni per Chung e Wilson.
Teatro La Fenice – Stagione 2021/22
FIDELIO
Opera in due atti su libretto di
Joseph Sonnleithner e Georg Friedrich Treitschke
Musica di Ludwig van Beethoven
Versione 1814
Don Fernando Bongani Justice Kubheka
Don Pizzarro Oliver Zwarg
Florestan Ian Koziara
Leonore Tamara Wilson
Rocco Tilmann Rönnebeck
Marzelline Ekaterina Bakanova
Jaquino Leonardo Cortellazzi
Primo prigioniero Dionigi D’Ostuni
Secondo prigioniero Antonio Casagrande
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Myung-Whun Chung
Mestro del coro Claudio Marino Moretti
Regia Joan Anton Rechi
Scene Gabriel Insignares
Costumi Sebastian Ellrich
Light designer Fabio Barettin
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 20 novembre 2021