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Torre del Lago, Festival Puccini 2021 – Turandot

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Non si poteva trovare serata più calda e umida di quella che ha visto andare in scena sul palco in riva al Lago di Massaciuccoli la terza recita di Turandot. Il nuovo allestimento dell’ultimo titolo pucciniano, coprodotto con il Teatro Goldoni di Livorno, presenta per la prima volta al Festival Puccini il finale composto nel 2001 da Luciano Berio, alternativo a quello più eseguito, pur con tagli di varia natura, di Franco Alfano. Non potrebbero esserci pagine più diverse, in quanto se Alfano mantiene una magniloquenza fascinosa e vagamente decadente, Berio invece punta a uno stile assai più asciutto, e al posto della catarsi del lieto fine troviamo dunque una angoscia serpeggiante, tutta novecentesca, in cui i grandi temi musicali sentiti fino a quel momento risultano scarnificati e estremamente moderni.

Tutte queste peculiarità vengono messe in evidenza dalla direzione di John Axelrod. I primi due atti scorrono in una generale accuratezza, sostanzialmente privi di brivido o pathos, ma con una buona gestione delle dinamiche tra palco e buca, dove troviamo una Orchestra del Festival Puccini compatta e decisamente in forma – e lo stesso si può dire del Coro della Fondazione preparato da Roberto Ardigò. Nel terzo atto Axelrod approda a una cifra più marcata, sospesa tra attimi sensuali e forme spigolose, per cui il passaggio alla composizione di Berio appare quasi naturale, in una ricerca di fusione tra i due elementi che smorza anche i tentativi di applausi del pubblico laddove finisce l’orchestrazione pucciniana, ma per uno che fila dritto dopo il “Nessun dorma” senza lasciare spazio al giubilo della platea, la cosa neanche stupisce.

Nel ruolo del titolo spicca il debutto di Emily Magee, che approda a Turandot dopo varie esibizioni pucciniane e straussiane sui palcoscenici di tutto il mondo. Già dalla sua entrata si sente tuttavia che lo strumento non è dei meglio conservati. Colpisce la pregnanza del registro acuto, pur affetto da un timbro metallico che nelle note più alte rischia di rasentare l’urlo. In basso invece la voce si fa sempre più vuota e si avverte una certa disomogeneità tra i registri. A parte qualche intuizione interessante di fraseggio nella scena degli enigmi, l’interprete rimane tuttavia piuttosto monolitica e poco propensa allo sgelo. Amadi Lagha risolve Calaf con una notevole forza vocale, grazie a bel timbro, al buon volume e alla saldezza della linea, coronata da acuti sicuri e da un’ottima tenuta dei fiati. Il suo è un Principe ignoto piuttosto convenzionale, privo di grandi sfumature psicologiche o vocali.
Non colpisce per duttilità nemmeno la Liù di Emanuela Sgarlata, dotata di voce ben proiettata ma dal timbro non personalissimo. Le sua arie risultano infatti piuttosto monocrome, con dinamiche appiattite, e quindi non particolarmente incisive. Nicola Ulivieri deliena un Timur molto buono sia dal punto di vista interpretativo che per saldezza vocale. Decisamente ottimo per dizione, fraseggio e qualità vocali appare l’Altoum di Kazuki Yoshida, mentre Francesco Facini risolve con la giusta autorità gli interventi del Mandarino. Una nota di merito va poi alle tre maschere Ping, Giulio Mastrotaro, Pong, Marco Miglietta e Pang, Andrea Giovannini: affiatatissimi, assai disinvolti in scena, e vocalmente a loro agio nei rispettivi ruoli, diventano il vero motivo di interesse per seguire questa recita.

Il regista Daniele Abbado, che firma il nuovo allestimento, sembra infatti concentrare la sua attenzione sui tre ministri e lasciare gli altri personaggi in un emisfero di relazioni più convenzionali. La scena, ideata da Angelo Linzalata insieme alle luci, si compone di tre grandi torri grigie decorate da sparuti ideogrammi; queste possono girarsi e rivelare un interno a più piani, dei quali quello più alto è solitamente occupato dai personaggi di rango e divinità più elevati, come Altoum. Pure Turandot appare dapprima irraggiungibile in una finestra circolare, mentre nel secondo atto scende una scalinata dentro la torre centrale a mano a mano che Calaf risolve gli enigmi, quasi omologandosi agli altri. I rimanenti personaggi infatti e le masse corali stanno in basso, in un contesto violento e opprimente: non è la Cina favolistica e piena di orpelli, ma un grigio luogo orientale senza tempo dove appaiono talvolta schegge di Novecento, come gli abiti quasi da cabaret dei ministri a inizio del secondo atto. Le idee non mancano e risultano piuttosto ben sviluppate, a partire da Liù che nel finale beve del veleno e si sacrifica su una sorta di altare rialzato, forse un richiamo al suicidio di Doria Manfredi, la cameriera di casa Puccini che si uccise ingerendo una delle sostanze che usava per pulire i pavimenti. Anche se il lavoro sugli interpreti potrebbe essere approfondito, si può parlare di una produzione tutto sommato riuscita.

Gran Teatro Giacomo Puccini – 77° Festival Puccini 2021
TURANDOT
Dramma lirico in tre atti
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini

Turandot Emily Magee
Liù Emanuela Sgarlata
Calaf Amadi Lagha
Timur Nicola Ulivieri
Ping Giulio Mastrotaro
Pang Marco Miglietta
Pong Andrea Giovannini
L’imperatore Altoum Kazuki Yoshida
Un mandarino Francesco Facini
Il principe di Persia Giovanni Cervelli
I ancella Fleur Strijbos
II ancella Luisa Berterame

Orchestra e coro del Festival Puccini
Coro di voci bianche del Festival Puccini diretto da Viviana Apicella
Direttore John Axelrod
Maestro del coro Roberto Ardigò
Regia Daniele Abbado
Scene e disegno luci Angelo Linzalata
Costumi Giovanna Buzzi
Movimenti scenici Simona Bucci
Nuovo allestimento in coproduzione con Teatro Goldoni di Livorno

Torre del Lago, 14 agosto 2021

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