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Torino, Cortile di Palazzo Arsenale per il Teatro Regio – Pimpinone, ovvero le nozze infelici

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A una settimana dal felice esito de La serva padrona, eletta da sempre a prototipo dell’intermezzo buffo settecentesco, il Regio Opera Festival propone nel Cortile di Palazzo Arsenale una variante sul tema, con un’occasione di ascolto ancora più raffinata e rara, quella di Pimpinone, ovvero le nozze infelici, di Georg Philipp Telemann. La trama è per lo più speculare all’opera di Pergolesi, se non fosse per la coda mestamente agrodolce del terzo dei tre intermezzi che compongono il lavoro, quella in cui Vespetta, astuta cameriera che riesce con le sue false galanterie a gabbare il povero Pimpinone facendosi da lui sposare, dopo essersi messa l’anello nuziale al dito si tramuta in una sorta di capricciosa Norina di futura memoria donizettiana e ne combina di cotte e di crude al povero sposo, al quale fallisce ogni tentativo di arginare la smanie di libertà della sposina (una donna libera, nella società di quel tempo, lo poteva essere solo con l’espediente della comicità) fino a far terminare amaramente l’opera, gettando sull’attempato scapolo non nobile ma ricco un velo di smarrita e confusa debolezza.

Rispetto all’intermezzo di Pergolesi, quello di Telemann, che lo precede di otto anni, nasce in ambito germanico, ad Amburgo, dove il compositore tedesco, nominato direttore del locale teatro dell’Opera, si era imposto, insieme a Reinhard Keiser e a Georg Friedrich Händel (del quale compositore venivano eseguite opere rappresentate con successo a Londra), fra i campioni germanici che emulavano lo stile compositivo dell’opera seria italiana. Fu fra un atto e l’altro di un’edizione di Tamerlano di Händel, proposta al Theater am Gänsermarkt di Amburgo il 27 settembre 1725, che Telemann confermò il suo campo d’indagine anche nel genere comico, dal momento in cui compose la musica per l’intermezzo Pimpinone, oder Die ungleiche Heirat, oder Die herrschsüchtige Cammer-Mädgen (Pimpinone ovvero Il matrimonio impari, o La dispotica cameriera), sfruttando il fortunato libretto di Pietro Pariati musicato da Tomaso Albinoni per Venezia nel 1708, tradotto in tedesco per l’occasione da Johann Philipp Praetorius. La riscrittura parziale dell’originale italiano riscosse un successo tale che a Telemann venne l’idea di comporre un’altra operina staccata, ideale seguito al soggetto, Die Amours der Vespetta (Gli amori di Vespetta), poi di pubblicare Pimpinone nella versione in tedesco, così da porsi orgogliosamente in rivalità con gli italiani dinanzi al dilagante successo dell’opera comica. I riconoscimenti furono da subito immediati, ma l’idea di creare un’opera buffa tedesca da contrapporre a quella italiana non ebbe, dopo un inziale entusiasmo, grande seguito. Tuttavia, a partire dalla prima esecuzione in tempi moderni del 1925 a Erlangen e poi dall’edizione curata da Thomas Werner nel 1936, Pimpinone ebbe notevole diffusione proprio in lingua tedesca, mentre la versione proposta oggi a Torino riprende l’originale libretto italiano di Pariati musicato da Albinoni adattandolo alla musica di Telemann, con l’aggiunta di alcuni inserti del libretto di Johann Philipp Praetorius musicati dal compositore tedesco e qui proposti nella traduzione ritmica italiana curata da Mariano Bauduin, regista dello spettacolo, occupatosi anche di stendere i versi per un breve prologo e di inserire, fra un intermezzo e l’altro, due arie in italiano tratte da The Beggar’s Opera di John Gay su musica di Johann Christoph Pepusch, dalla quale ballad opera si ascolta anche l’Ouverture. Si approda, in tal modo, alla versione verosimilmente più completa, in lingua italiana, del libretto tedesco di Praetorius musicato da Telemann, comprendente più numeri musicali (sette arie anziché cinque) rispetto a quello originale di Pariati, messo in musica da Albinoni quando venne, come detto, proposto a Venezia nel 1708, poi divenuto libretto di successo, musicato da altri compositori fino a essere tradotto in tedesco al momento in cui varcò i confini italiani alla volta della Germania (dopo Amburgo, approdò a Braunschweig nel 1720 e a Monaco di Baviera nel 1722), per arrivare anche a Bruxelles e in Russia. Fu quindi il successo acquisito dal libretto – così avveniva nel Settecento anche per l’opera seria – a mettere in moto l’estro dei tanti compositori che si interessarono ad un soggetto divenuto nel tempo ripetitivo, rimodulato in diverse forme musicali su un canovaccio tematico caro al pubblico.

La versione torinese si arricchisce poi, in un continuo gioco di teatro nel teatro, dell’aggiunta di un personaggio, il Mendicante, interpretato da un attore che, quando canta le citate arie da The Beggar’s Opera come fossero uscite da un musical, veste prima parrucca e giustacuore poi indossa abiti femminili; le esegue come collante fra le tre parti di questo intermezzo giocoso, preceduto come detto da un breve prologo recitato ideato per l’occasione di questa esecuzione torinese, in cui l’attore stesso, il bravissimo Pietro Pignatelli, nelle vesti di poeta ambulante, invita il pubblico a “sognare insieme a noi questa farsetta” e poi dà il via al maestro perché attacchi le note del preludio di Pepusch, cerniera per entrare nel mondo musicale di Telemann, ben più impegnativo rispetto a quello dell’intermezzo di Pergolesi ascoltato la settimana precedente. La musica, scritta benissimo, non si accontenta di essere solo dialogica, o quasi gestuale, bensì disegna melodie e motivi musicali memori della cultura strumentale tedesca, cólta e insieme raffinata, e si avvicina a un sentire stilistico di matrice quasi pre-mozartiana. Le arie, per lo più tripartite, sono impegnative e mettono alla prova le capacità vocali oltre che attoriali degli interpreti, in questa edizione i medesimi che avevano dato vita con successo alla precedente Serva padrona. Una squadra vincente e affiatatissima.

Francesca Di Sauro, che è un mezzosoprano, qui è chiamata al cimento di una parte decisamente sopranile. Si disimpegna con stile e musicalità sopraffina nelle sue arie; nella seconda, “Gentil parlar con giusto cantar”, riesce a risolvere con voce di bel timbro le note picchettate e le fioriture che, qua come altrove, la parte richiede. Lo fa con classe, presenza scenica dai tratti femminili vezzosi e fascinosi e si guadagna tutti i meriti necessari per fare della sua Vespetta un personaggio a tutto tondo. Marco Filippo Romano, che sta all’opera buffa come sole e mare sono parti integranti delle prospettive paesaggistiche partenopee, è un Pimpinone che lo spettacolo presenta quasi come avido ebreo in affilata barba bianca; davvero memorabile l’interpretazione offerta dall’ormai affermatissimo baritono buffo siciliano, irresistibile quando intona l’aria del terzo atto “So quel che si dice, so quel che si fa”, nella quale canta da solo come fosse in un “terzetto” in cui imita con voce di falsetto ben proiettata due comari che si confrontano fra di loro lamentandosi per la tirannia dei loro mariti. Aria difficilissima e al tempo stesso spassosa, vuole un controllo dell’emissione perfetto nel giocare con sincopi e rapide ripetizioni di parole e note sui diversi registri, con quei “s’ei dice no, no, io dico: sì, sì” in cui la voce deve passare dal falsetto al grave maschile rendendo sapida la matrice teatralissima della pagina, risolta davvero magistralmente da un cantante divenuto insostituibile punto di riferimento in questo repertorio; la sua maestria nel canto sillabico recitato-parlato si rifà a una tradizione esecutiva comica (Enzo Dara docet) ripulita dai malvezzi caricaturali e dal cattivo gusto del passato, esaltata al massimo grado qualitativo, divenendo in lui un paradigma di stile e arte scenico-vocale da prendere a modello per cosa significa essere un buffo oggi.

Dal podio dell’Orchestra del Regio, Giulio Laguzzi intesse le fila musicali di questa operina con garbo, sostenuto nei recitativi accompagnati con scioltezza al fortepiano da Carlo Caputo. Il loro accompagnamento musicale, soffice, morbido ed elegante, mai nervoso, si sposa al dinamismo delicato di uno spettacolo che il regista Mariano Bauduin monta con il medesimo impianto scenico di Claudia Boasso già utilizzato per La serva padrona, con costumi settecenteschi di Laura Viglione davvero bellissimi, mostrando il medesimo teatrino ligneo, qui con l’aggiunta, al lato della scena, di carretti carichi di fiori che adornano anche i palchetti e cassette che, una sull’altra, dal lato destro del palcoscenico, formano un altro piccolo palcoscenico, con tende rosse che fungono da ulteriore teatrino per la recitazione. Un gioco di teatro nel teatro continuo, fra interni ed esterni in stile settecentesco, fluidissimo e ritmicamente gestito da una regia attenta a non perdere neanche per un attimo il ritmo e la freschezza che fanno di questo Pimpinone uno spettacolo davvero perfetto. Da non perdere la replica, prevista il prossimo 27 luglio, visto che il pubblico, alla prima, era ahimè a ranghi alquanto ridotti.

Torino, Regio Opera Festival
PIMPINONE
OVVERO LE NOZZE INFELICI
Intermezzo comico musicale in tre parti
Libretto di Pietro Pariati
per l’omonimo intermezzo di Tomaso Albinoni
Inserti da The Beggar’s Opera di John Gay
e dal libretto di Johann Philipp Praetorious per l’intermezzo di Telemann
Prologo e traduzioni ritmiche italiane di Mariano Bauduin
Musica di Georg Philipp Telemann
Ouverture e due arie tratte da The Beggar’s Opera
Musica di Johann Christoph Pepusch

Vespetta Francesca Di Sauro
Pimpinone Marco Filippo Romano
Mendicante Pietro Pignatelli

Orchestra Teatro Regio Torino
Direttore d’orchestra Giulio Laguzzi
Maestro al fortepiano Carlo Caputo
Regia Mariano Bauduin
Scene Claudia Boasso
Costumi Laura Viglione
Luci Andrea Anfossi
Nuovo allestimento Teatro Regio Torino

Torino, Cortile di Palazzo Arsenale, 25 luglio 2021

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