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Su Rai5, la Manon Lescaut scaligera diretta da Muti, con Guleghina e Cura

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L’edizione di Manon Lescaut in onda mercoledì 29 settembre, alle ore 10, su Rai5 documenta il primo incontro di Riccardo Muti con Giacomo Puccini (1998). Un rapporto interlocutorio, quello del grande direttore con il compositore lucchese negli anni della sua permanenza al Teatro alla Scala (come dimostrerà anche la successiva Tosca del 2000). Direzione discutibile? Fraintendimento dell’opera pucciniana? No. Si potrebbe dire semplicisticamente che questa Manon scaligera manca di sensualità nella resa musicale. In realtà, il discorso è più articolato.

Non siamo di fronte a una interpretazione convenzionale e di routine. Muti non confonde Puccini con un normale compositore verista, che accetta proporzioni stentoree o magari effettacci. La sua lettura è sinfonicamente tirata a lucido, ma si preoccupa anche di rifinire e intimizzare, di liberare strutture sonore rendendo cameristicamente trasparenti molti dettagli. Ne esce una direzione contrastata, divisa fra morbidezze francesizzanti e impennate melodrammatiche, le une e le altre messe a fuoco con il consueto senso della narrazione e della definizione ambientale. Manon Lescaut è tutta giocata in fondo sui contrasti, sugli scontri di caratteri, di mondi, di gerarchie sociali. Una molteplicità di situazioni differenti che Muti unifica grazie a una nervosa e sottile scansione ritmica, con la quale snoda e incalza la vicenda, senza mai cadere nel falso sentimentalismo. Il punto è che Muti fa divampare il fuoco, il dramma, ma non con altrettanta evidenza la sensualità “animale” che ha indotto a parlare, nell’approccio a Manon, di “scoperta dei sensi”, di rappresentazione del “delirio dei sensi” che acceca la ragione. L’impressione invece è che per Muti questo delirio sia sottotraccia apparentabile al delirio metafisico wagneriano del Tristan und Isolde. E in questo senso risulta indicativa l’esecuzione dell’intermezzo fra il secondo e il terzo atto che con Muti, per dirla con parole di un pucciniano di ferro come Mosco Carner, tristaneggia senza rossore. La sensualità, l’antagonismo tra i sessi, la dimensione amorale di Manon, e dunque la forza irrefrenabile che il puro erotismo aveva per Puccini, non si impongono nell’ottica di Muti. E non si percepiscono nemmeno nell’esecuzione vocale dei due protagonisti, all’epoca molto quotati.

Maria Guleghina, che pure esibisce una voce importante (per quanto tendenzialmente forzata e “aperta” negli acuti), non dispone di un timbro seducente e sensuale che le consenta di rendere in pieno il lato adolescenziale, estroverso e malizioso di Manon. Non si può negarle un apprezzabile spessore drammatico, e nemmeno una buona tenuta complessiva. Si desidererebbe tuttavia maggiore chiarezza di dizione, un accento più scandito, un fraseggio più nervoso e colorito. Des Grieux è José Cura, che da questa prova scaligera attendeva in un certo senso la consacrazione, anche se non c’era molto da consacrare. Con la sua voce dal bel timbro scuro, robusta, dura nell’emissione, Cura è efficace e drammaticamente incisivo nei passi declamatori del terzo e quarto atto. Non ha però il timbro né il lirismo del vero amoroso pucciniano. Il suo dominio tecnico non è così ferreo da permettergli di alleggerire, sfumare, variare e colorire come dovrebbe. Si limita a cantare piano e forte, con qualche ricorso a singulti e a un’espressività di matrice verista che non bastano a dare vero calore alla sua interpretazione. Lucio Gallo è un Lescaut accettabile, anche se nei tentativi di smorzare i suoni la voce va “indietro”. Tra le parti di fianco si distinguono Marco Berti (Edmondo) e Gloria Banditelli (Un musico). Luigi Roni è Geronte.

L’allestimento con la regia di Liliana Cavani e le scene di Dante Ferretti è molto tradizionale e rispetta luoghi e tempi del libretto. L’intenzione di fondo è trasmettere il senso di instabilità sociale e psicologica che investe i protagonisti attraverso la precarietà logistica degli ambienti: la stazione di diligenze nel primo atto, il porto del quarto, con l’enorme sagoma di una nave (un po’ effetto Titanic) che aumenta il senso di fatalità e angoscia, in vista della tragedia finale nella desolata landa americana. La regia della Cavani narra la vicenda senza commenti invadenti, con abilità, cogliendo il segno nei singoli particolari e con ritmo convincente nelle grandi linee.

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