Venerdì 9 luglio, alle ore 10, va in onda su Rai5 l’edizione della Bohème che nel gennaio 2018 ha inaugurato la stagione lirica del Teatro Comunale di Bologna. Riproponiamo qui la recensione di Roberto Mori, con l’avvertenza che la ripresa televisiva non rende al meglio lo spettacolo con la regia di Graham Vick visto in teatro e che la scarsa qualità del suono penalizza pesantemente soprattutto la direzione di Michele Mariotti.
Un ospite invisibile si aggira tra i giovani ritratti da Graham Vick nell’allestimento de La bohème proposto con grande successo in apertura di stagione al Comunale di Bologna. Friedrich Nietzsche lo definisce “il più inquietante di tutti gli ospiti” e lo chiama “nichilismo”. In scena non agiscono bohémien alle prese con le crisi esistenziali che appartengono alle giovani generazioni di ogni epoca. Quelli che vediamo sono ragazzi del nostro tempo, afflitti da un malessere diverso e ben più profondo. Un disagio culturale, più che psicologico, che li porta a fare i conti con un panorama che assume i contorni del deserto di valori e della mancanza di senso. All’apparenza sono bravi figli di papà, studenti ben educati e simpatici, indossano jeans strappati e felpe, ma il nichilismo che li attanaglia, sottraendo loro progetti e prospettive, li porta a un individualismo esasperato, a cercare lo sballo o a drogarsi per anestetizzare il dolore, in qualche caso a prostituirsi per una dose. A differenza dei loro coetanei di fine Ottocento, ma anche dei loro stessi genitori e dei loro nonni (presumibilmente ex sessantottini), non hanno ideali né utopie: sono in balia di una casualità priva di direzione e orientamento, figli di un’epoca di “passioni tristi”, che li rende analfabeti emotivi. Non sanno assumersi responsabilità morali e rimuovono la paura della morte e l’angoscia del nulla rifugiandosi nell’indifferenza e nell’egoismo, come dimostra la loro reazione di fronte all’agghiacciante fine di Mimì, assistita con evidente disagio, quasi con fastidio e, in ultimo, abbandonata da tutti. Anche da Rodolfo, che scappa spaventato lasciandola a terra coperta da un telo bianco.
Non è esattamente la fine prevista da Puccini, è vero. Ma Vick, portando in scena il disagio e l’immaturità dei ragazzi di oggi, fa una scelta coerente dimostrando di sapere leggere in profondità i segni dei tempi. Se avesse proposto un finale lacrimevole e consolatorio, come da tradizione, avrebbe realizzato una delle tante Bohème attualizzate e scontate che si vedono di frequente a teatro. Nell’edizione bolognese, invece, tutto è costruito con logica e rigore drammaturgico, nella consapevolezza che esiste una frattura insanabile tra la fine dell’Ottocento e la nostra epoca.
Il capolavoro di Puccini rientra infatti nel disegno di un decadente patetismo che contrassegna la fin de siècle e vede affermarsi un codice sentimentale e nostalgico-musicale adatto a una nuova condizione sociale e culturale. Quando Giacomo Debenedetti scrive che il compositore erige “un monumento a tutte le sartine d’Italia” si riferisce proprio all’irruzione di un nuovo soggetto sulla scena del melodramma: la piccola borghesia. Il punto è che la vita, i sentimenti e l’ideologia di quella classe sociale vengono da Puccini non solo rappresentati, ma scoperchiati, denudati e sviscerati con un cinismo e un sadismo impressionanti che culmineranno in Madama Butterfly. Vero è che La bohème non tocca ancora certe catastrofi. È piuttosto uno sguardo alla giovinezza perduta, alla sua crudeltà, ma anche alla sua allegria e ai suoi sogni. Insomma, un trionfo dell’effetto nostalgia che si colloca in un periodo in cui iniziano le grandi elaborazioni artistiche e filosofiche della memoria (la Recherce di Proust è alle porte), mentre il malinconico senso di perdita si trasforma in uno stile e in una moda.
Nessuna consolazione, nessun effetto nostalgia è invece possibile nella Bohème di Vick. Il disorientamento filosofico che a fine Ottocento Nietzsche si limita a enunciare proclamando la morte di Dio, oggi lo vediamo concretamente nel crollo dei valori e delle certezze che contrassegna il nostro presente, nel nichilismo che penetra nei sentimenti e nei pensieri delle nuove generazioni, di cui lo spettacolo di Vick sembra offrire una spietata fotografia, quasi uno spaccato sociologico.
All’inizio, la chiave di lettura non è subito chiara. Incorniciati dalle scene di Richard Hudson (che firma pure i costumi), i primi due quadri scorrono leggeri e brillanti con toni da commedia spensierata: vi si ritrovano le goliardie, le tenerezze e le schermaglie amorose di sempre, riviste e attualizzate con sorprendente freschezza e spontaneità. Si resta colpiti dalla cura della recitazione, dalla bravura attoriale degli interpreti, dalla chiarezza del canto di conversazione, favorita – oltre che da una concertazione magistrale – anche dal fatto che l’azione si svolge sempre in proscenio. La soffitta non è altro che un appartamento studentesco arredato alla rinfusa con mobili vecchi e fatiscenti, mentre il secondo quadro, tra le luminarie natalizie e il clima festoso che si respira attorno all’affollato Cafè Momus, è un trionfo di vita e vitalità: un fuoco d’artificio dopo il quale ci saranno solo desolazione e squallore.
Lo scarto di atmosfera negli ultimi due quadri è netto. La barriera d’Enfer è uno squarcio di periferia degradata dei nostri giorni: una via malfamata, frequentata da spacciatori, marchettari, prostitute, poliziotti corrotti. Nell’ultimo quadro si ritorna all’appartamento iniziale, ormai vuoto: tra le pareti scrostate restano solo la cucina a gas e un bidone della spazzatura. In questa cornice si consuma la tragedia di Mimì abbandonata, tra il disagio e la vigliaccheria di giovani che, in fuga da se stessi e dalle proprie responsabilità, non intendono fare realmente i conti con la realtà e il dolore. E così, mentre l’orchestra si spegne, l’immagine della giovane coperta da un lenzuolo bianco, con a fianco un paio di scarpe rosse col tacco, procura una stretta al cuore e si imprime indelebilmente nella memoria, offrendo una prospettiva diversa e una veste nuova a un capolavoro spesso corroso dalla routine esecutiva e dall’ascolto inflazionato.
Il merito della riuscita dello spettacolo è anche di una compagnia formata da cantanti-attori credibili e affiatati. Se vogliamo, non tutto è perfetto sotto il profilo vocale, ma la ventata di freschezza che emerge dai fraseggi e dalla disinvoltura scenica consente, per una volta, di mettere in secondo piano i limiti dell’emissione.
La Mimì di Mariangela Sicilia è una studentessa della porta accanto, dal timbro ombreggiato (pur non essendo un autentico lirico), tratteggiata con linea di canto efficace, drammaticità dolente e intima. Francesco Demuro è un Rodolfo scenicamente ideale e dalla vocalità gradevole, nitido nella dizione, vario nel fraseggio, capace di mezzevoci suadenti e acuti squillanti (compreso il do nella “Gelida manina”). Lascia il segno pure il Marcello di Nicola Alaimo, non solo per la bella timbratura e l’emissione omogenea, ma anche e soprattutto per la ricchezza degli accenti e delle sfumature espressive, oltre che per la comunicativa e il dinamismo scenico. Da parte sua, Hasmik Torosyan è una Musetta formato soubrette, dalla voce chiara, non molto ricca di colori, ma tutto sommato efficace nel restituire la malizia e la sensuale morbidezza che il personaggio richiede. Gli altri bohémien sono Evgeny Stavinsky, un Colline vocalmente corposo, ma morbido e misurato nell’arietta della zimarra, e Andrea Vincenzo Bonsignore, convincente Schaunard. Funzionale la prova di Bruno Lazzaretti nel doppio ruolo di Benoît e Alcindoro.
Se nel flusso degli eventi, delle arie e dei dialoghi i personaggi si focalizzano con la massima chiarezza e precisione, è anche perché Michele Mariotti, alla sua prima Bohème e al suo secondo Puccini (oltre dieci anni fa ha diretto un Gianni Schicchi a Fano), realizza una concertazione esemplare. Il direttore chiarisce le rigorose strutture musicali con nitidezza e senza sentimentalismi, consapevole che il compositore lucchese calcola a freddo le emozioni. Nondimeno, la sua è una lettura ad alto coefficiente emozionale, garantisce partecipazione sentimentale evitando i sentimentalismi esteriori, infonde senso del dramma senza il gusto dei fraseggi retorici e pesanti. Raramente capita di sentire valorizzate, come succede qui, le raffinate trame del canto di conversazione. Tutto scorre con leggerezza, mobilità, con ricchezza di dettagli, soluzioni inedite, o perlomeno si ha questa sensazione. Mariotti riesce a far percepire che in Bohème la novità della melodia pucciniana, semplice e insinuante, viene esaltata da una orchestrazione estranea a ogni traccia di formula arcaica o impaccio scolastico. Una musica che, in un’opera che parla di giovinezza e di amori destinati a morire con la prima ruga, risulta essa stessa giovane e libera da ogni vincolo con il passato.