È lo spettacolo che ha inaugurato la Stagione d’opera 2017/18 del Teatro San Carlo di Napoli, La fanciulla del West di Giacomo Puccini, che Rai Cultura propone in prima tv mercoledì 30 giugno alle 21.15 su Rai5. La direzione musicale è affidata a Juraj Valčuha, mentre l’allestimento è realizzato di Hugo de Ana, che cura regia, scene e costumi. La “fanciulla” Minnie ha la voce del soprano statunitense Emily Magee; lo sceriffo Jack Rance quella di Claudio Sgura; il bandito Dick Johnson quella di Roberto Aronica. Riproponiamo qui la recensione di Paola De Simone.
“Tre assi e un paio!” scandisce trionfante Minnie al termine del secondo atto de La fanciulla del West di Puccini vincendo all’ultima mossa, anche se barando, la sfida a poker con lo sceriffo Rance, sul cui tavolo sono in gioco il proprio onore e la libertà dell’uomo che ama, il bandito gentiluomo Johnson. E tre sono gli assi (la splendida direzione musicale di Juraj Valčuha, l’efficace allestimento western in stile primo Novecento interamente firmato da Hugo De Ana e il bravo baritono Claudio Sgura), più una coppia con riserva (il soprano Emily Magee e il tenore Roberto Aronica) puntati a segno per il successo del titolo pucciniano tornato dopo quarantadue anni di assenza sulle scene del Teatro San Carlo di Napoli per inaugurare, fra gli applausi e un discreto parterre istituzionale, la nuova Stagione d’opera e di balletto 2017-18.
In primo piano assoluto, e a conferma delle premesse ben chiarite nell’intervista a noi rilasciata dal direttore musicale del San Carlo Juraj Valčuha, in duplice esordio sia in apertura della Lirica al San Carlo che in Fanciulla, è da premiare l’alta qualità tecnico-stilistica della sua conduzione dal podio. Una lettura di rara bellezza sinfonica: rigorosa negli attacchi come nel controllo delle molteplici dinamiche, minuziosamente analitica, scolpita per immagini di raffinata potenza cinematografica, abile nel restituire con piena consapevolezza la complessa modernità di un linguaggio ritmico, melodico e armonico che per l’Italia della grande tradizione melodrammatica, quanto per lo stesso catalogo pucciniano, costituì nell’anno 1910 un vero portale verso le maggiori avanguardie musicali d’Europa. E il suo gesto esatto, fin qui particolarmente rodato su titoli importanti del Novecento, ne traduce e racconta ogni dettaglio, fin nel pianissimo distillato flettendo le ginocchia e frenando la marea sonora con la mano sinistra, cogliendone l’astrazione onirica nel Valzer ternario battuto in due, ricercandone e trovando oltre lo scavo metrico e gli impulsi dinamici il colore ideale. Ed è così che, attraverso un’Orchestra del Teatro San Carlo in ottima forma, coesa e duttile alle sue indicazioni – entro la quale si loda su tutti l’eccellente tributo della prima arpa, Antonella Valenti – sentiamo e vediamo già solo in musica tutto il Golden West di Belasco. Un mondo filtrato con originale cifra italiana – fra nostalgia e sogno, gelosia e tormenti, espansioni liriche, accenti barbarici e genuine pennellate di folclore americano – da un Puccini incline tanto alle sfumature dell’impressionismo francese quanto alle lacerazioni espressionistiche della Mitteleuropa, con squarci, pitture e invenzioni che rinviano a Debussy, Richard Strauss e persino alla Seconda Scuola di Vienna ma, anche, alla nostra Generazione dell’Ottanta.
A esatto pendant e dunque non meno apprezzabile, si è rivelata la dimensione visiva di Hugo de Ana, anch’egli alla sua prima Fanciulla pucciniana e autore di regia, scene e costumi in coproduzione con l’Opera Abao-Olbe di Bilbao. Prospettiva di un western da grande schermo del secolo XX, così come enunciata dalle tante locandine-velario anni Trenta-Cinquanta ma presto tirate giù lasciando il campo alla realtà scenica del Polka saloon quanto, oltre l’impatto oleografico, sul peso specifico dei sentimenti, con pochi ma fondamentali effetti in video e un deserto perimetrale a emblema della solitudine che incornicia la storia di Minnie, unica donna – se si eccettua il breve episodio con l’indiana Wowkle, per De Ana più un colore musicale che un personaggio vero e proprio – in un campo minerario da cui allontanarsi per un ipotetico altrove in cui vivere felici.
Terzo e ultimo asso, quindi, lo sceriffo Jack Rance così come vocalmente ben ritagliato dal baritono Claudio Sgura che, oltre la sicura prestanza scenica ed entro un pentagramma volto per lo più a tratteggiarne la condotta “ringhiosa” attraverso l’azione, ne riscopre l’onore, così come in misura emblematica nel suo unico pezzo chiuso al primo atto “Minnie! Dalla mia casa”, attraverso il migliore rapporto ascoltato in campo fra intonazione, proiezione e una sempre ben curata gamma di tinte espressive.
Qualche riserva si esprime invece per la coppia dei protagonisti: la Minnie del soprano newyorkese Emily Magee, pur dotata di forza da Elektra straussiana e non esente da puntature valide per la più moderna tempra pucciniana (pensiamo a Turandot), a causa della deficitaria dizione e soprattutto per una scoperta disomogeneità al passaggio fra i registri, fra gli intervalli o persino fra le due vocali di un dittongo (come nella sua aria “Laggiù nel Soledad”), è da ritenersi senz’altro l’anello debole dello spettacolo inaugurale, nonostante l’ampia esperienza maturata sui maggiori palcoscenici internazionali proprio con la Fanciulla del West, con i principali capolavori di Strauss (Salome, Elektra, Die Frau ohne Schatten, Arabella), in ruoli wagneriani e nei Lieder di Mahler. Per quanto assai plastica la sua partita di poker, il resto della sua prova è un misto di luci e ombre: al grave non se ne comprendono né le parole né i suoni, in zona centrale alterna buone rotondità pucciniane con asciutte emissioni a pasta acida mentre, all’acuto, sfoggia pienezza di voce ma quasi sempre sfiorando la dissonanza o peggio ancora lo strillo. All’opposto il caso del tenore Roberto Aronica, amante sincero e omogeneo nelle linee liriche di un canto compatto ma magro di armonici e, tendenzialmente, schiacciato nelle zone più alte del suo registro.
Fra i restanti quindici personaggi si segnalano come notevoli gli interventi del mezzosoprano Alessandra Visentin (Wowkle) e del tenore Enrico Cossutta (Joe) al fianco di Bruno Lazzaretti (Nick), John Paul Huckle (Ashby), Gianfranco Montresor (Sonora), Paolo Orecchia (Sid), Antonello Ceron (Trin), Tommaso Barea (Bello), Orlando Polidoro (Harry), Ivan Marino (Happy), Donato Di Gioia (Larkens), Enrico Marchesini per il pellerossa Billy Jackrabbit, Carlo Checchi per il cantastorie cieco Jake Wallace, Francesco Musinu (José Castro) e Armando Valentino (Un postiglione). Nel complesso buona la non facile prova del Coro del Teatro San Carlo, preparato da Marco Faelli, e calibrato ad arte da Vinicio Cheli il disegno delle luci.
Infine, una curiosità: cosa ci facevano, servite in tavola nella capanna di Minnie ai piedi delle Cloudy Mountains californiane, due grandi zeppole con crema e una pastiera napoletana?