Rai Cultura trasmette su Rai5 tre spettacoli registrati nel corso dell’estate. Si tratta delle prime produzioni in forma scenica per l’Arena di Verona dopo la pandemia, e sono realizzate con le scenografie digitali di D-wok. Si inizia con il celebre dittico formato da Cavalleria rusticana di Mascagni e Pagliacci di Leoncavallo, in programma oggi, mercoledì 15 settembre, dalle 21.15 su Rai5. Sul podio è impegnato Marco Armiliato. Protagonisti del capolavoro di Mascagni sono Sonia Ganassi, Clarissa, Leonardi, Murat Karahan, Amartuvshin Enkhbat e Agostina Smimmero. Nel cast di Pagliacci cantano Marina Rebeka, Yusif Eyvazov, Amartuvshin Enkhbat, Riccardo Rados, Mario Cassi, Max René Cosotti e Dario Giorgelè. La regia tv è di Fabrizio Guttuso Alaimo. Riproponiamo qui la recensione di Roberto Mori.
Con l’accoppiata Cavalleria rusticana e Pagliacci, all’Arena di Verona ritorna quello che Rodolfo Celletti definiva “il melodramma delle aree depresse”. Storie passionali di corna e di coltelli con cui Mascagni e Leoncavallo danno all’opera italiana di fine Ottocento quanto il momento storico richiede. La dimensione sonora estroversa di Cavalleria esprime una retorica delle passioni primitive nelle quali la borghesia postunitaria finisce per identificarsi. Lo stesso vale per Pagliacci, anche se Leoncavallo tenta di attenuare la violenza verista con sovrastrutture intellettualistiche, mescolando realtà e finzione, e creando di fatto una situazione da teatro nel teatro. Un dittico cui è impossibile negare una drammaturgia efficace ed esiti scenico-musicali di indubbia presa. Non per niente, a livello rappresentativo, si è manifestata nel tempo la tendenza a riconoscere in questi due capisaldi del verismo musicale seduzioni teatrali e anticipazioni di un realismo più moderno, compresi spunti psicologici e suggestioni figurative tipici del cinema neorealista, o che rimandano, nel caso di Pagliacci, ai film di Fellini e, in particolare, a La strada.
Su questa linea si muove la nuova produzione veronese che, dopo l’Aida nella versione concertante diretta da Muti, ha riportato finalmente in arena l’opera in forma scenica. Non ci sono firme in locandina, gli spettacoli sono realizzati dalle maestranze della Fondazione. Naturalmente non potendo ancora proporre gli imponenti allestimenti architettonici e le affollate soluzioni kolossal peculiari delle stagioni veronesi, si è cercato di trovare soluzioni alternative che consentissero di conciliare la spettacolarità con le necessità del distanziamento fisico, la funzionalità e i costi contenuti. Di qui il ricorso alle scenografie digitali: su un grande led wall sfilano, con effetto vagamente Cinerama, le immagini fornite da istituzioni museali italiane che definiscono l’ambientazione delle vicende. In Cavalleria l’impronta è chiaramente neorealista e quindi le foto, la scarna attrezzeria scenica e i costumi sono tutti impostati sul bianco e nero. Sul led si susseguono vedute di paesaggi siciliani, scatti di processioni sacre, ma anche riproduzioni di affreschi e disegni storici provenienti dai Musei Vaticani. Se l’atto unico di Mascagni è all’insegna della sobrietà, anche per il taglio molto tradizionale della regia e la presenza di poche comparse, Pagliacci ha una impostazione diametralmente opposta. È una esplosione di colori, un viavai vorticoso di figuranti (rigorosamente con mascherina), e pure la regia è più articolata. In questo caso, a predominare sono le atmosfere e le citazioni felliniane, e non solo quelle riferite a La strada. La storia si svolge a Cinecittà e vediamo sfilare in pratica i personaggi dei principali film di Fellini. Durante l’intermezzo vengono proiettate suggestive immagini del grande regista e di Giulietta Masina fornite dal Museo nazionale del cinema di Torino e dal Fellini Museum Rimini di prossima inaugurazione. Non mancano forzature e qualche momento di confusione, ma nel complesso l’opera di Leoncavallo gode di una messinscena più accattivante, specie quando si tratta di assecondare il gioco del teatro nel teatro, dove più che l’omaggio a Fellini è evidente il rimando agli allestimenti di Pagliacci realizzati da Franco Zeffirelli.
Dal podio, Marco Armiliato dimostra ancora una volta di muoversi a suo agio nel melodramma italiano ottocentesco, anche se la disposizione del coro sulle gradinate di sinistra genera, soprattutto in Cavalleria, qualche scollamento vistoso con il palcoscenico e l’orchestra (cui forse contribuisce anche il sistema di amplificazione, meno evidente rispetto all’Aida diretta da Muti, ma non sempre ben calibrato). A parte questo, la sua lettura del dittico verista per antonomasia segue le rotte della tradizione più consolidata. La conduzione si assesta su una linea drammatica e stilistica equilibrata, capace di conciliare la tensione e l’incandescenza passionale con la ricercatezza dei colori e il senso del lirismo.
Nel cast di Cavalleria si fa valere la Santuzza di Sonia Ganassi che, pur non muovendosi nel suo elemento naturale, considerata la sua formazione rossininana e belcantistica, offre un’interpretazione di buon impatto drammatico. La vocalità, non più freschissima, fa trapelare alcune durezze in acuto, ma l’espressività del fraseggio e l’intelligenza dell’interprete compensano ampiamente qualche limite d’emissione. Il tenore turco Murat Karahan evidenzia nei panni di Turiddu le risorse di una vocalità interessante ed estesa, anche se gli acuti risultano a volte più voluminosi che squillanti. L’interprete non sfoggia un fraseggio e un accento particolarmente approfonditi, ma è comunque efficace e misurato. Credibile, nonostante le disomogeneità nel registro grave, la Mamma Lucia di Agostina Smimmero e appena funzionale la Lola di Clarissa Leonardi. Quanto ad Amartuvshin Enkhbat, impegnato in entrambe le opere, conferma di essere uno dei migliori baritoni in circolazione per quanto riguarda la morbidezza e la nobiltà del timbro, la correttezza dell’emissione e la nitidezza della dizione. Nel suo canto non ci sono mai forzature né cedimenti al cattivo gusto: la linea è sempre impeccabile anche quando affronta il repertorio verista. Se come Alfio è corretto, ma non molto analitico sotto il profilo interpretativo e qua e là poco incisivo, nei panni di Tonio il giovane baritono mongolo offre viceversa una prova maiuscola. Canta tutto splendidamente, emette acuti timbratissimi e il la bemolle (non prescritto) di “al pari di voi” nel Prologo è una folgore. Anche sotto il profilo espressivo e drammatico, il personaggio risulta perfettamente a fuoco e calibrato.
La restante compagnia, in Pagliacci, è eccellente. Yusif Eyvazov è Canio e, nel suo caso, ci si trova come sempre a distinguere fra i limiti del timbro e la qualità delle emissioni. Ma tant’è. Il tenore azero è un ottimo cantante: scolpisce in modo esemplare i recitativi, ha dizione perfetta e corretta fonazione, un fraseggio vario e una linea di canto sfumata. Piega il personaggio a una suggestiva espressione lirica e patetica, ma risulta tagliente e credibile pure nella declamazione e negli scatti rabbiosi, senza mai calcare la mano. Un canto del tutto esente da forzature è anche quello di Marina Rebeka, che d’altra parte è uno dei maggiori soprani odierni. La sua Nedda è molto musicale, ineccepibile nell’emissione, debitamente centrata sotto il profilo sentimentale e malinconico, scenicamente avvenente. Il timbro non ha forse quelle screziature sensuali che il repertorio verista richiederebbe, ma siamo comunque di fronte a una prova di alto livello.
Mario Cassi è un Silvio impeccabile per timbro, correttezza vocale e fraseggio insinuante, e Riccardo Rados figura molto bene nella Serenata di Arlecchino. Completano adeguatamente la locandina Max René Cosotti, un contadino, e Dario Giorgelé, altro contadino.