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Su Rai5, il Don Carlo scaligero di Muti e Zeffirelli. Protagonisti Pavarotti, Dessì, Ramey

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La settimana operistica che Rai5 dedica a Franco Zeffirelli prosegue mercoledì 31 marzo, alle ore 10, con il Don Carlo di Verdi che aprì la stagione 1992/93 del Teatro alla Scala di Milano. Sul podio Riccardo Muti. Protagonisti Luciano Pavarotti, Daniela Dessì, Samuel Ramey, Paolo Coni, Luciana D’Intino e Alexander Asimov. Proponiamo qui una recensione-ricordo di Giancarlo Arnaboldi

Che serata burrascosa fu quel 7 dicembre 1992! Il loggione, e non solo, si scatenò contro Luciano Pavarotti reo di non essersi ben preparato per il suo debutto nel Don Carlo, opera non facile per il tenore, e per aver incrinato la voce durante la scena dell’Autodafé. Fra le dichiarazioni rilasciate dallo stesso cantante dopo la tempestosa prima, val la pena di citare almeno quella in cui dichiarò: “non avrei dovuto accettare un’opera non potendola preparare in tutta calma; sono arrivato per ultimo perché la mia agenda era piena di impegni, questo non vuol dire che ho sbagliato tutto, ma solo che non ho avuto il tempo di capire dove il percorso presentava delle curve pericolose”. In effetti il ricordo di quella serata non è certo legato alla sua discontinua prestazione, anche se riascoltato oggi il suo timbro così solare e luminoso non può che essere rimpianto stante la penuria, per non dire l’inesistenza, di autentiche voci verdiane tenorili. Anche Luciana d’Intino, che cantava Eboli, fu contestata (“dovrebbe essere una pantera e invece è solo una gatta” si scrisse), ma dove trovare oggi una voce così autenticamente mezzosopranile, oggi che ci affliggono “soprani corti” che, per simulare un volume e dei gravi che non possiedono, gonfiano all’inverosimile la loro vocalità.

Trionfatore assoluto della serata fu, come ovvio, Samuel Ramey: aristocratico, raffinatissimo vocalmente e scenicamente, capace di tenere l’intero teatro con il fiato sospeso durante l’esecuzione della celeberrima aria di Filippo II “Ella giammai m’amò”, mentre criticato fu pure Paolo Coni giudicato “troppo pallido” come Marchese di Posa, ma io ricordo un interprete attento a ogni indicazione verdiana, scenicamente elegante e ben caratterizzato. Per ultima, ma non ultima, l’Elisabetta di Valois della rimpianta Daniela Dessì: anche lei si prese qualche mugugno dopo il suo “Tu che le vanità”, ma evidentemente perché la si paragonava alle irraggiungibili Tebaldi e Caballè, storiche interpreti del ruolo. Oggi l’ascolteremmo in ginocchio. Fu anche merito suo se pure Pavarotti riuscì, in qualche modo, a ritrovare la propria forma migliore durante il sublime duetto finale “Ma lassù ci vedremo in un mondo migliore”, celestialmente attaccato piano dalla Dessì. A lei diede infatti la replica il Luciano nazionale che seppe usare una mezzavoce forse non limpidissima, ma emozionata ed emozionante.

Riccardo Muti, che allora per la prima volta si confrontava nel tempio scaligero con Claudio Abbado, firmatario circa quindici anni prima di un Don Carlo memorabile con un cast che alternava Domingo a Carreras nel ruolo del protagonista, non perse un colpo, ma fu comunque disapprovato per la scelta del cast vocale. Franco Zeffirelli, infine, all’epoca da tempo assente al Teatro alla Scala, non siglò certo una regia trasgressiva e geniale come quella di Luca Ronconi, regista dell’edizione diretta da Abbado, ma seppe regalarci un allestimento fastoso come suo solito e attento alla realtà storica del libretto. 

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