Sabato 6 febbraio, alle ore 8.00 e alle ore 18.52, va in onda su Rai5 l’oratorio di Antonio Vivaldi Juditha triumphans, titolo inaugurale di Vicenza in Lirica 2020. Francesco Erle dirige l’Ensamble barocco del festival Vicenza in Lirica e il coro Schola San Rocco. Nel cast spiccano i nomi di Sara Mingardo e Vivica Genaux, affiancate da Caterina Meldolesi, Cecilia Gaetani e Alessandra Visentin. Riproponiamo qui la recensione di Roberto Mori.
Antonio Vivaldi è riemerso dall’oblio in modo fortunoso negli anni Venti del Novecento, ritornando regolarmente nelle sale da concerto e in teatro solo nella seconda metà del secolo. Per la precisione, il punto di svolta della riscoperta è rappresentato dalla nascita, nel 1939, delle Settimane Musicali Senesi che, fin dall’inizio, dedicano ampio spazio alle composizioni del “Prete Rosso”. Nel 1941, in pieno conflitto mondiale, la terza edizione della rassegna presenta l’esecuzione in forma scenica dell’oratorio Juditha triumphans. Titolo che nei decenni successivi ritornerà con frequenza in sede concertistica e teatrale, fino a godere in anni più recenti di una certa fortuna anche a livello discografico.
La Juditha, scelta come titolo di apertura dell’edizione 2020 del festival Vicenza in Lirica, è insomma un capolavoro ben noto. Scritta per le “figlie di choro” dell’Ospedale della Pietà a Venezia, è un “oratorio militare sacro” – l’unico sopravvissuto fra i quattro oratori attribuiti a Vivaldi – su libretto in lingua latina di Giacomo Cassetti. La vicenda biblica diventa una allegoria della lotta militare della Serenissima contro i turchi, dove Giuditta rappresenta Venezia e Oloferne il sultano. Composto per la precisione durante la sesta guerra della Repubblica contro l’impero ottomano, l’oratorio viene eseguito probabilmente nel 1716, quando ormai la vittoria delle armate veneziane è una realtà.
L’organico prevede cinque soliste vocali, un coro e un’orchestra comprendente numerosi strumenti obbligati poco usuali, come mandolino, chalumeau (o salmoè, strumento simile al clarinetto inventato pochi anni prima), organo, viola d’amore e un consort di cinque viole da gamba, che contribuiscono a una ricchezza musicale evidente, per l’appunto, soprattutto nella policromia dello strumentale e nell’inventiva melodica e armonica. L’ispirazione melodica sfrenata, il colorismo, l’invenzione ritmica, l’originalità e l’alta qualità musicale di Juditha triumphans sono innegabili, così come indubbia è la tendenza di Vivaldi alla contaminazione operistica. Tanto più che manca la figura del narratore (historicus) tipica dell’oratorio e i personaggi, inseriti in una azione che procede rapida e senza diversioni, hanno caratteri ben definiti. Non stupisce che fin dalla riesumazione del 1941, questo lavoro venga spesso proposto in forma scenica. Al Teatro Olimpico di Vicenza, invece, si è scelto – anche per le problematiche legate alle limitazioni anti-Covid – di presentarlo in versione concertistica, e il risultato è una esecuzione di gran pregio.
Rispetto all’imponente organico previsto da Vivaldi, Francesco Erle – che lavora sul manoscritto autografo conservato nella Raccolta Foà della Biblioteca nazionale universitaria di Torino – opta per un parterre strumentale decisamente più ridotto. Mancano per esempio, oltre al consort di viole, le trombe squillanti e i rulli di timpani che hanno il compito di accentuare il carattere trionfalistico e celebrativo dei pannelli corali di apertura e chiusura di quella che, per alcuni aspetti, potremmo definire un’opera “di propaganda”. In compenso, ci sono otto strumentisti preparatissimi (fra cui lo stesso Erle al cembalo) e ferrati in materia di esecuzioni storicamente informate, che compongono l’Ensemble Barocco del Festival e meritano tutti la citazione. Sono: Roberto Loreggian alle tastiere di organo e regale, Cristiano Contadin alla viola da gamba, Gianluca Geremia alla tiorba, Luigi Marasca al salmoè, cui si aggiungono polistrumentisti come Anna Fusek, impegnata al violino e ai flauti, Arrigo Pietrobon all’oboe e ai flauti, mentre Davide Gazzato si destreggia fra arcicliuto, percussioni e una zampogna.
La direzione di Erle, che dispone quindi di mezzi limitati per numero ma non per qualità, riesce a ottenere un affresco sonoro soggiogante che evoca con suggestione il rutilante mondo barocco della Venezia sei-settecentesca, ancora oggi capace di stupire e “meravigliare”. Se per ovvi motivi il piglio marziale di alcuni (rari) momenti dell’oratorio ne esce un po’ ridimensionato, la tavolozza timbrica è tuttavia ampia e variegata quanto basta a evidenziare i tesori cromatici della musica vivaldiana; anche la ricchezza di varietà ritmica è rispettata e valorizzata all’occorrenza con incisività. Il direttore ora imprime il necessario impeto drammatico, ora sottolinea con sensibilità e preziose sfumature i momenti di patetismo e trasporto amoroso, assecondando tutti gli “affetti” dei personaggi, ma anche le inclinazioni e le qualità delle interpreti a disposizione.
Il personaggio a cui Vivaldi riserva il maggior numero di brani, nonché il più ampio ventaglio di emozioni e sentimenti, è Vagaus, all’Olimpico sostenuto da un’interprete di livello internazionale, Vivica Genaux, una virtuosa che sa stupire l’ascoltatore perché ha una dote fondamentale nel repertorio barocco: l’esecuzione rapidissima di ogni tipo di agilità. A suo agio nella tessitura acuta della parte, la vocalista cesella con amabili agilità di grazia le arie più brillanti e fiorite, assecondando con fraseggio espressivo l’evoluzione psicologica dell’eunuco al servizio di Oloferne, che culmina – dopo la scoperta del corpo decapitato del generale – in un potente recitativo drammatico e nell’aria di sdegno “Armatae face et anguibus”. Inutile dire che qui Genaux affronta l’impervio virtuosismo della scrittura vocale a velocità supersonica, con precisione e grinta.
Altra interprete di prestigio è Sara Mingardo, una delle rare voci contraltili del nostro tempo impegnata nel ruolo di Holofernes. Col suo timbro vellutato, l’emissione morbida e omogenea, il gusto squisito, il fraseggio ben tornito, l’accento scolpito ed espressivo delinea un personaggio che perde progressivamente il contegno marziale e l’ardore guerriero per trasformarsi da tiranno in arrendevole innamorato. È proprio in questa seconda veste che Mingardo eccelle, facendo vibrare le corde del languore e del patetismo toccante in arie come “Noli o cara te adorantis” e “Nox obscura tenebrosa”.
Stilisticamente appropriate le prove delle tre giovani e promettenti interpreti che completano il cast. Nella parte di Juditha, Caterina Meldolesi esibisce un timbro sopranile con qualche bella ombreggiatura, emissione nell’insieme ben controllata, anche se non sempre incisiva in basso, come nell’aria di paragone “Agitata infido flatu”. In generale, l’interprete si dimostra più disinvolta nelle pagine di raccolto lirismo che in quelle di cantabilità sfogata e veemenza espressiva. Il suo momento migliore è la magnifica aria “Veni, veni me sequere fide”, dove la morbida dolcezza della vocalizzazione si intreccia con lo chalumeau obbligato (il bravo Luigi Marasca) che riproduce il verso della tortora.
Apprezzabile il mezzosoprano Cecilia Gaetani nel ruolo dell’ancella Abra: la voce è ben timbrata e di bel colore, la fonazione corretta, l’interprete attenta a restituire gli stati d’animo del personaggio. Bene pure Alessandra Visentin che veste i panni del sommo sacerdote Ozias con vocalità e fraseggio adeguati e restituire attendibilmente la severità e la dignità sacrale della parte.
Al grande successo della produzione contribuisce infine il coro Schola San Rocco, preparato da Erle, che non è tutto femminile (come lo era quello delle “putte” della Chiesa di Vivaldi), ma assolve puntualmente al suo importante ruolo, soprattutto nei due numeri estremi che incorniciano l’oratorio.