Nella stagione 1999/2000, per festeggiare il centenario di Tosca, rappresentata per la prima volta al Costanzi di Roma il 14 gennaio 1900, il Teatro alla Scala riprese l’allestimento firmato nel 1997 da Luca Ronconi. Una produzione disastrata, i cui artefici – regista, direttore e cantanti – erano stati tutti clamorosamente contestati dal pubblico (qui la nostra recensione). Riccardo Muti, alla sua prima Tosca teatrale, provò a risollevarne le sorti, con una nuova compagnia di canto. Ma fu, come direbbe Scarpia, fallace speranza.
Come documentato dalla ripesa televisiva in onda su Rai5 domenica 26 settembre alle ore 10, lo spettacolo brutto era e brutto rimane. Le scene di Margherita Palli evocano una ambientazione sconquassata da prospettive sghembe e forzate verso l’alto. Un coacervo di soluzioni visive a incastro dall’effetto caotico. La regia di Ronconi, a parte le allusioni anticlericali e il Te Deum in odore di critica sociale (una sorta di marcia trionfale di storpi e disperati), propone la Tosca di sempre: realistica, esplicativa, convenzionale per gestualità e recitazione.
La parte musicale funziona relativamente meglio. Almeno in orchestra. Muti, si sa, ha un senso del teatro sconosciuto a Semyon Bychkov che, nel ’97, aveva scardinato la partitura di Puccini con una direzione lenta, fredda e pedante. Qui la coesione sul piano drammatico e narrativo è superiore. Pieni orchestrali ampi, vibranti, e stacchi energici si alternano a impasti timbrici soffusi e preziosi. Qua e là, la concertazione fa emergere anche notazioni inedite, che però non confluiscono in una visione d’insieme realmente originale e innovativa. Per quanto Tosca gli si addica più di Manon Lescaut, è evidente che Muti non ha nel sangue il repertorio pucciniano. Inoltre, gli spunti offerti dagli accompagnamenti (alcuni davvero splendidi) cadono nel vuoto, perché nessuno degli interpreti è in grado di trarne partito.
Il terzetto protagonista è in effetti deludente. Maria Guleghina, pur non urlando come la Gorchakova tre anni prima, è interprete e vocalista poco rifinita. Ha timbro e volume imponente nel registro medio-alto, ma la tessitura grave le crea disagio. Emette acuti calanti (il si bemolle di “Vissi d’arte”, per esempio) e rivela impaccio nelle smorzature e nei filati. Pesano negativamente anche la dizione spesso confusa e la carenza di sensualità. L’adesione al personaggio di Tosca è insomma incompleta. Salvatore Licitra, Cavaradossi, ha gli stessi pregi e difetti riscontrati in quegli anni anche in altre produzioni. La voce è bella, comunicativa, ben timbrata nel settore medio-grave. Nella scalata al registro alto, invece, manda “indietro” i suoni. Di conseguenza gli acuti non squillano, le mezzevoci e i piani si stimbrano e opacizzano. Delude pure il glorioso Leo Nucci: il suo Scarpia, opaco, privo di autorità scenica e imponenza vocale, non è riscattato nemmeno dalla dialettica espressiva. Efficace nella caratterizzazione, ma usurato, il sagrestano di Alfredo Mariotti. Funzionali i restanti comprimari.
Alla prima, il successo fu contrastato. Dal loggione piovvero contestazioni (buu e zittii) per Guleghina, Nucci e soprattutto per Licitra. Fra le acclamazioni, non mancarono dissensi per lo stesso Muti.