È dedicata al Teatro Massimo di Palermo la programmazione del ciclo di cinque opere che Rai Cultura propone dall’1 al 5 marzo sul suo canale Rai5. Si comincia lunedì 1 marzo, alle 10 del mattino, con il dittico La mano felice di Schonberg e Il castello del duca Barbablù di Bartók, presentato con la regia di Stefano Ricci al Teatro Massimo nel 2018 e adesso in prima visione Tv. A dirigere l’Orchestra è il direttore ungherese Gregory Vajda, uno degli interpreti più affermati dell’opera di Bartók. L’ambientazione per entrambi titoli è il circo con i suoi “orrori” e i suoi eccessi all’inseguimento di sempre nuovi record. In scena, il basso Gabor Bretz, protagonista di entrambe le opere, il mezzosoprano Atala Schöck, gli attori Giuseppe Sartori e Piersten Leirom, un gruppo di performers e il Coro del Teatro Massimo diretto da Piero Monti. Riproponiamo qui la recensione di Giuseppe Montemagno
La prima impressione è quella di aver sbagliato spettacolo. A sipario chiuso, davanti a un velario rigorosamente nero, si avanza infatti uno di quei personaggi che – tra Otto e primo Novecento – venivano definiti ‘fenomeni da baraccone’: un donnone barbuto, una gigantesca Baba la Turca transfuga da qualche stravinskijano Rake’s Progress, con in mano una minuscola bara bianca. Che depone a giardino, prima di spogliarsi – quasi completamente – dell’abito di scena da cui è infagottata, dapprima gioielli e collane, quindi un fastoso vestito di velluto, infine un posticcio che la rendeva vistosa, pingue bambola gonfiabile. L’apertura quadrangolare del sipario, quasi una sorta di frame su un mondo immaginario, rivela una scena quasi interamente ricoperta da teli di cellophane trasparente, mobilissimo sfondo traslucido di una partitura nata quasi per utopia, quella Musica di accompagnamento per una scena cinematografica, op. 34, composta da Arnold Schönberg tra l’ottobre del 1929 e il febbraio del 1930 – nel periodo dunque in cui attendeva a Moses und Aron – in risposta a una commissione della Heinrichshofen’s Verlag, casa editrice specializzata nella pubblicazione delle musiche da film.
È questo il prologo dello spettacolo più ambizioso del cartellone del Teatro Massimo di Palermo, nato per celebrare il centenario della prima esecuzione del Castello del duca Barbablù di Béla Bartók, tenuto a battesimo all’Opera di Budapest il 24 maggio del 1918, e che all’atto unico del musicista magiaro ha premesso la ripresa di un altro, rarissimo titolo del catalogo di Schönberg, La mano felice, scritto a più riprese tra il settembre del 1910 e il novembre del 1913. Numerose, validissime ragioni militavano per una scelta simile: non solo la comune temperie estetica, a cavaliere tra Simbolismo ed Espressionismo; ma soprattutto la ricerca di un nuovo approccio drammaturgico, che da questa scaturiva, e che mirava alla creazione di un’inedita dimensione sinestesica, volta a coniugare parole e musica, luci e colori nella percezione dell’azione scenica. Minuziose didascalie, sceniche e musicali, sintetizzavano l’auspicio di precipitare lo spettatore, più e meglio di quanto era già stato realizzato dal dramma musicale wagneriano, in un’esperienza sensoriale che non si limitava a coinvolgere vista e udito: da qui la scansione di entrambe le partiture, organizzate per blocchi che si succedono senza soluzione di continuità, ma immaginati ciascuno con una forte identità, non solo musicale. Stazioni, in tutto simili a quelle della via crucis, attraverso le quali si articola un’indagine analoga: anche sotto il profilo del contenuto, infatti, i due atti unici esplorano, seppur per vie diverse, la condizione di isolamento dell’essere umano, soprattutto a seguito del tentativo – destinato a rivelarsi vano – di costruire una relazione tra l’uomo e la donna, che alla fine si ritrovano isolati in una condizione d’ineluttabile solipsismo.
Si aggiunga a questo felice accostamento il particolare legame che la città di Palermo, da sempre benemerita nella diffusione della musica contemporanea, intratteneva con i due titoli. Si deve infatti a Luigi Rognoni, già docente nell’ateneo isolano, la creazione italiana di Die glückliche Hand al XXVII Maggio Musicale Fiorentino, il 31 maggio del 1964, su scene e costumi originali del compositore, per la direzione di Bruno Maderna: uno spettacolo che sarebbe stato ripreso nel corso degli anni all’Opera di Roma come alla Scala di Milano, fino a raggiungere il Massimo palermitano, il 20 giugno di cinque anni più tardi, a cura di quel “Gruppo di Studio del Centro” in cui militavano, tra gli altri, i registi Pietro Carriglio e Beno Mazzone, con la musicologa Amalia Collisani. Allo stesso fervore creativo era da ricondursi, appena un anno prima, la prima palermitana dell’atto unico di Bartók, sempre con la regia di Carriglio, infaticabile esploratore della contemporaneità in musica.
Tutto questo per far cogliere da un lato il clima di attesa, di cui ha beneficiato lo spettacolo, e dall’altro lo spaesamento suscitato dal progetto creativo del duo ricci/forte, alle prese con un nuovo titolo novecentesco dopo la controversa Turandot maceratese dell’anno passato. L’icastica bellezza, l’immacolato nitore di un’immagoturgia non sempre chiaramente decifrabile accompagnano infatti l’opera di Schönberg, deprivata dell’ambientazione mitologico-fiabesca originaria, e invece calata in un’ambientazione medico-circense: tra plotoni (d’esecuzione?) d’inflessibili infermieri e drappelli di funamboli impegnati nei numeri di un algido luna park, letti d’ospedale e corpi che si cercano, si toccano e si perdono tra le pieghe di lattiginosi teli di plastica, diaframmi valorizzati dal magistrale disegno luci di Pasquale Mari. Si rimane colpiti – e a tratti anche sedotti – dalla mobilissima, rigorosa mano registica di Stefano Ricci come dal visionario impianto scenico di Nicolas Bovey: ma a lungo ci si interroga sulle finalità di una trasposizione che non solo si allontana dalle prescrizioni dell’autore, ma dà vita a uno spettacolo che presto appare urticante, velleitario, incongruo.
Senonché – quasi a voler instaurare un ponte tra le due opere – viene meno il prologo del Bardo immaginato in apertura dell’opera di Bartók, per lasciare spazio a una lectio magistralis, redatta dagli autori del progetto creativo e affidata al mercuriale, instancabile talento di Giuseppe Sartori. È una prolusione volta ad affrontare il tema dell’identità, del rapporto tra l’essere umano e il suo prossimo: «come entrare in contatto con il differente da noi», per genere, storia, vissuto. Nudi su due pedane da circo, un uomo e una donna sono l’oggetto di un’analisi impietosa quanto – forse – impossibile: casi clinici e al tempo stesso numeri di quello spettacolo quotidiano che è la vita, viandanti di un percorso spesso affrontato con coraggio e determinazione, ma altre volte con la lucida follia delle falene che muoiono quando sfidano la luce. E allora è impossibile sottrarsi agli affondi poetici di chi cerca di scoprire l’essenza dell’uomo e della donna, «esemplari meravigliosi dell’incapacità di comprendersi.» Rebus enigmatici, l’uno e l’altra, che talora si incontrano, spesso si amano, finché «la carta da parati inizia ad ingiallirsi» e «l’intonaco deflagra in pezzi», facendo emergere unicamente «sfiducia maschile, risentimento femminile.» Leggere Schönberg e Bartók alla luce di queste considerazioni, d’un tratto, si rivela folgorante: perché testi elaborati agli albori della psicanalisi si rivelano preziosa cartina di tornasole per interpretare anche il presente, i nostri giorni, fino all’impenetrabile isolamento degli hikikomori giapponesi, che rinunciano alla vita per chiudersi tra le mura inespugnabili di una stanza e, peggio, di un computer.
Rutilanti e inventive, le immagini che illustrano Il castello del duca Barbablù esaltano la ricchezza di prospettive dell’opera, laddove l’apertura delle sette porte viene associata al progressivo disvelamento della realtà, favorito da gelide luci al neon: corone di fiori di plastica e volti deturpati dal trucco, ma anche un percorso in purezza che culmina nel lirismo della sesta porta, quella in cui l’acqua si spande sulla scena dopo aver impregnato i capelli dei misteriosi abitanti del luogo – ora negli abiti dimessi e quotidiani che Gianluca Sbicca ha disegnato per descrivere ciascuno di noi. E tutto questo acquista una forza e una potenza drammatica esaltata dalla straordinaria bacchetta di Gregory Vajda, autentico specialista dell’opera di Bartók e, più in generale, delle avanguardie di primo Novecento. È una prova di autentico virtuosismo, quella che consegnano l’Orchestra e il Coro del Massimo – quest’ultimo affidato alle sensibili cure di Piero Monti, per i brevi ma significativi interventi nell’opera di Schönberg. Perché il direttore ungherese-americano plasma una pasta morbida, ricca, estrema propaggine di un tardo Romanticismo che sfocia in una lussureggiante paletta timbrica, più luminosa e incisiva nelle trame di Schönberg, improntata a nitido lirismo nella partitura di Bartók. Ed è straordinaria la tensione che riesce dapprima ad accumulare, quindi a sciogliere in maniera cupa ma inesorabile, valorizzando la forma ad arco che accomuna le due opere: nella prima quando l’Uomo, novello Siegfried, forgia il gioiello da donare alla Donna, nell’empito della “tempesta di luce”; nella seconda quando Judit apre la quinta porta, quella del regno di Barbablù, e squaderna un orizzonte di forza tellurica, esaltata dalla deflagrante potenza di organo e ottoni. È una lettura insieme lucida ma al tempo stesso intensamente espressiva, che efficacemente coglie la straordinaria unicità dei due titoli: difficilmente ascrivibili a questa o quella tendenza musicale perché perfettamente integrati in quel territorio di confine di carattere sperimentale, avanguardista, che qui diventa continuum sonoro, emotivo, drammaturgico.
Su questo eloquente tappeto musicale si stagliano le prove dei due solisti, entrambe di grande rilievo. Atala Schöck è una Judit dall’ampio manto vocale, provvista di uno strumento di straordinaria ampiezza, vellutato, sontuoso. È attenta alle sottolineature di una continua ricerca che è musicale quanto psicologica: ogni porta schiusa nel castello del consorte corrisponde a una scoperta inattesa, trasmessa con tutto lo stupore, la meraviglia, l’incanto che la accompagnano; e nello stesso tempo con l’orrore, il timore, il terrore che ne scaturiscono. Fino all’ultima scena dell’opera, che padroneggia con acuto senso del rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere – ma non sarà più, e forse non è mai stato. È un tragico precipitare verso le profondità della notte, verso la più cupa oscurità della vita, che la accosta alla duplice, imponente interpretazione di Gábor Bretz: Uomo piagato dalla vita ma infine tetragono alla perfidia muliebre, nel dramma di Schönberg, ma soprattutto Barbablù massiccio, solidissimo, austero. Sigla una prova maiuscola, di forte impatto scenico, grazie a dei mezzi dispiegati con doviziosa eleganza e equilibrato senso della misura: come se il fallimento dei precedenti legami affettivi, come delle conquiste effettuate durante una carriera fulgida di successi, si fossero condensati in un grumo di dolore, sommesso ma penetrante, definitivamente irrisolto e inconsolabile.
Per questo anche Judit troverà il suo posto, accanto alle altre tre donne della sua vita, sospese in aria nell’altalena della vita, tra le montagne russe dei sentimenti: simboli dell’alba e del tramonto, del mezzogiorno e della mezzanotte di un percorso che è diventato terapeutico, solo perché ha svelato cosa si nasconde dietro le maschere del circo. Dentro la piccola bara bianca Barbablù troverà infatti l’ultimo carillon, l’estrema illusione infantile, con una bambolina che ruota senza posa, ma anche senza scopo: e – a questa inattesa scoperta – esploderà in una risata, fragorosa, assordante. Di quelle che forse non seppelliscono il mondo, ma sicuramente la speranza.
Photo credit: Franco Lannino