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Roma, Teatro dell’Opera – Tosca

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Laddove in parallelo s’inventano scenari di guerra o vertigini apocalittiche per spingere in avanti ed esporre nelle sempre più mondane vetrine della contemporaneità le grandi opere della nostra tradizione lirica, fa ancora oggi non poco, se non maggiore effetto la Tosca così come ebbe verosimilmente a vederla l’autore Giacomo Puccini al debutto assoluto, la sera del 14 gennaio 1900 al Teatro Costanzi di Roma. Dunque riproducendo, per il I atto, tutta l’imponenza delle pareti e dei pilastri della chiesa di Sant’Andrea della Valle dipinti a perdita d’occhio tra le ombre e i fasci di luce fin giù filtrata attraverso i finestroni della cupola, i riti fra le cancellate barocche che ne dividono gli spazi, la cappella degli Attavanti celata sulla destra e, sulla sinistra, l’impalcato per il lavoro del Cavaliere Mario Cavaradossi alla tela della Madonna dagli occhi azzurri. E così per l’ampia stanza di Scarpia a Palazzo Farnese, all’atto II, riccamente decorata fra stucchi dorati, nicchie a volta e cornici mentre, per il terzo, sufficienti si rivelano i nudi spalti di Castel Sant’Angelo sotto un immenso cielo stellato, le tinte rosa dell’alba romana accompagnate dalla voce bianca di un tenero canto popolare di un pastorello e, sullo sfondo, il lontano profilo ottocentesco di San Pietro.

A restituirne l’impianto e l’impatto visivo, a partire dal 2015 e per più volte fino al presente secondo la giusta logica di un titolo e di una produzione a tutti gli effetti emblematici della stessa città quanto del palcoscenico capitolino così come lo sono ad esempio lo Schiaccianoci per il Natale e il balletto Napoli di Bournonville per il Royal Danish Theatre di Copenhagen, è il più che lodevole allestimento romano firmato dalla regia dettagliatissima e senza errori di Alessandro Talevi, qui in ripresa curata da Arianna Salzano, con le luci fondamentali di Vinicio Cheli. Un allestimento mirato appunto a ricostruire di quella storica “prima assoluta” l’impianto visivo secondo i canoni pittorici della più autentica scuola scenografica e scenotecnica italiana, accanto ai costumi nell’esatto stile dettato dai giorni della caduta Repubblica romana giacobina, ricostruiti rispettivamente da Carlo Savi e da Anna Biagiotti lavorando per soggetti e materiali sulle fonti originali di bozzetti e figurini a firma di Adolf Hohenstein, custoditi presso l’Archivio Storico Ricordi.

A rendere inoltre in premessa peculiare la ripresa, al terzo posto in locandina dopo il varo di ben due opere contemporanee (Julius Caesar di Giorgio Battistelli e, per i più giovani, Acquaprofonda di Giovanni Sollima), la scelta degli interpreti che, fra podio e palcoscenico, vedeva affidare al maestro Paolo Arrivabeni la guida degli organici della Fondazione, al soprano spagnolo Saioa Hernández (per la prima volta all’Opera di Roma) il ruolo del titolo testato due anni fa anche alla Scala sostituendo Anna Netrebko, il tenore aretino Vittorio Grigolo per Cavaradossi sullo stesso palcoscenico che ne aveva tenuto a battesimo il debutto a soli tredici anni con il ruolo del pastorello nella memorabile Tosca del 1990 con Luciano Pavarotti e il ritorno, dopo l’edizione del 2017 a Caracalla, del fenomenale baritono Roberto Frontali per il barone Scarpia.

Va subito detto che nella medesima linea ad alta fedeltà dell’allestimento ha preso quota una narrazione musicale di raro smalto, puntuale misura e viva plasticità dal podio, naturalmente anche in virtù delle sollecite risposte delle prime parti e di ogni sezione (tolto un lieve cedimento ai corni e qualche sbavatura d’intonazione ai violoncelli) dell’Orchestra dell’Opera di Roma. La successione accordale in triplo forte, staccata come a scavare il dramma tra le profondità del grave in apertura, vibra infatti a tutta forza ma mai rinunciando alla rotondità dei suoni e alle sfumature di colore, garantendo addirittura valenze prossemiche a ogni tornitura strumentale di frase e il giusto peso metrico-dinamico a scorci sonori multiprospettici come nel lento incedere in crescendo del Te Deum. Parimenti grande risulta l’attenzione di Paolo Arrivabeni tanto nella singola caratterizzazione dei temi quanto nella riconoscibilità dei diversi spunti motivici entro il dedalo di innesti, trasformazioni, colpi di scena e repentine indicazioni dinamiche, di volta in volta mirate a interiorizzare, rafforzare, addolcire, esasperare o a infiammare un iter drammatico serratissimo fra gelose schermaglie d’amore, carica eroica e sadica ferocia, sia erotica che persecutoria. Ne consegue la ricerca di una piena cantabilità e, al contempo, di giri di vite negli archi, di affondi potenti tra gli ottoni, di spiccati rilievi ai legni (splendido il solo del clarinetto nella romanza “con catene” di Cavaradossi), di suggestive atmosfere all’organo, arpa e campane, di effetti spettacolari alle percussioni, così come ben attestato nel corso dell’opera intera e, all’apice, in quel finale colpo sordo di grancassa calibrato e smorzato veramente ad arte dal palco laterale di destra prossimo al proscenio. Mirabile anche la prova del Coro preparato da Roberto Gabbiani e delle voci bianche, intonatissime, della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma.

Per la resa dei protagonisti si procede in ordine di qualità. Un grande plauso spetta al non facile ruolo del barone e carnefice Scarpia di Roberto Frontali, solido come una roccia per emissione, accenti e portamento scenico: il suo canto prende forma, volume e tempra fra le armonie sghembe del suo grottesco tema, si insinua lungo una mobilità crescente alimentando con malizia i sospetti nella gelosa Tosca, declama con odiosa potenza e mercanteggia con lascivo melos, per poi stringere vocalmente con forza e tensione inaudite il torchio fra interrogatorio, tortura e confessione.
Segue il Cavaradossi tutto passione ardente e naturale istinto dell’applauditissimo Vittorio Grigolo che, al termine di una prova di non comune intensità e verità drammatica, esce con le mani aperte al cielo, poi con i pollici all’insù, quindi donando a gesti il cuore verso quel pubblico di una città per lui visibilmente speciale. A sorprendere, a parte la prestanza gestuale e scenica, con tanto di veri e appassionati baci, è la sincerità di un canto che corre sonoro e ben veloce in sala, spinge ove opportuno i suoni e mantiene a lungo i fiati pur sempre tenendosi al riparo da ridondanze di ogni sorta, ricordando forse più di ogni altro per genuinità di tinta e respiro il canto generoso dell’indimenticabile Giuseppe Di Stefano, di cui ricorrono i cent’anni esatti dalla nascita. La sua romanza al I atto “Recondita armonia” si leva morbida e con piena cantabilità verso acuti ben timbrati, nel confronto con Tosca svetta per la duttilità delle arcate e i palpiti del cuore, così come di vivo slancio risultano l’invettiva contro Scarpia all’atto II e il duetto al III. Il suo lamento “E lucevan le stelle” germina con sentimento dolcemente intimo per toccare tre apici proiettati all’infinito tutti sulle vocali “o”, ampliandone la durata in sospensione fra “i dolci baci o languide carezze”, sul “disciogliea”, al centro degli emistichi “E non ho amato” e “mai tanto la vita”.
Diverso il caso di Saioa Hernández, voce da lirico-spinto di gran volume e svettante all’acuto, in grado di tener testa, quanto a tenuta, a una tessitura musicale faticosissima, irta di cambi di espressione e articolazione, di tono e registro. Una tenuta che, tuttavia, non ha sempre garantito la necessaria, tagliente bellezza di emissione, per lo più coperta, e la debita cura in puntature talvolta spinte sino alla forzatura improvvisa (come sul si bemolle nell’Allegro moderato della sua prima sortita in chiesa). Similmente qualche ombra ha intaccato la fermezza dei suoni e dell’intonazione in special modo in zone di passaggio e finanche nell’incipit della sua celeberrima preghiera, vibrante di emozioni ma tendente a ballare e, comunque, abbondantemente applaudita a scena aperta. Da maturare anche il temperamento scenico di un ruolo che richiederebbe maggiore sensualità e grinta fisica, oltre che nella voce.
Ancora, nel cast desta attenzione il Sagrestano di lusso restituitoci al netto dei canonici vizi caricaturali e con belle sonorità da Roberto Abbondanza, bravo il Cesare Angelotti di Luciano Leoni, giusto lo Spoletta di Saverio Fiore e una lode di merito spetta infine al giovane Davide Praticò per il limpido stornello intonato come un angelo, al sorgere del sole, fra il cielo e la terra di Roma.

Teatro dell’Opera – Stagione 2021/22
TOSCA
Melodramma in tre atti
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
tratto dal dramma omonimo di Victorien Sardou
Musica Giacomo Puccini

Floria Tosca Saioa Hernández
Mario Cavaradossi Vittorio Grigolo
Barone Scarpia Roberto Frontali
Sagrestano Roberto Abbondanza
Cesare Angelotti Luciano Leoni
Spoletta Saverio Fiore
Sciarrone Leo Paul Chiarot
Un carceriere Fabio Tinalli
Un pastorello Davide Praticò

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
con la partecipazione della Scuola di Canto Corale
del Teatro dell’Opera di Roma

Direttore Paolo Arrivabeni
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia Alessandro Talevi
(ripresa da Arianna Salzano)
Scene Adolf Hohenstein
ricostruiti da Carlo Savi
Costumi Adolf Hohenstein
ricostruiti da Anna Biagiotti
Luci Vinicio Cheli
Allestimento Teatro dell’Opera di Roma ricostruito
sui bozzetti originali della prima esecuzione del 1900
in collaborazione con l’Archivio Storico Ricordi

Roma, 7 dicembre 2021

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