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Roma, Teatro dell’Opera – Julius Caesar

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“Between the acting of a dreadful thing and the first motion, all the interim is like a phantasma or a hideous dream”: come a dire, fra l’azione di un atto orribile e il suo primo impulso, tutto quello che è nel mezzo è come una spettrale visione. O un sogno spaventoso. È quanto confessa il Brutus shakespeariano nella Tragedy of Julius Caesar (II.1) scritta oltremanica a un anno dall’ingresso nel XVII secolo. Ed è quanto oggi rimbalza nel nuovissimo Julius Caesar di Giorgio Battistelli con le medesime parole (ad eccezione del lemma originale “motion”, che nel libretto diventa “impulse”) e ulteriore forza d’impatto nel lacerante Sprechgesang staccato, tra le schegge fischianti all’acuto delle trombe con sordina più tromboni e percussioni, dal cospiratore Bruto, morso com’è dall’inquietudine nel suo moderno studio, in didascalia “orto”, dinanzi alla propria coscienza e in presenza del servo Lucio al bussare dei cospiratori – poi assassini – del grande Giulio Cesare, chiamati da lui a raccolta per pianificare il primo e più celebre tradimento in Senato della storia, nel giorno delle idi di marzo.

Congiura e delitto della politica romana e non solo, perché ciclicamente presente in ogni longitudine, partito e tempo, ben oltre quel 15 marzo del 44 ante Christum natum. E lo fa nell’opera in musica di Battistelli dal cuore della terza scena dell’atto I aprendo e svelando, attraverso quelle allucinate pareti semantiche e come girando la chiave psicoanalitica di una camera oscura (la coscienza del dubbio), il senso stesso di un linguaggio musicale dalla spiccata gestualità materica, in apparenza caotico ma liberamente organizzato. Per fasce, macchie o blocchi. Un linguaggio che, superando la fisicità della singola nota, diviene scavo e percezione del tormento, flusso sonoro magmatico, cupo e potente, rapinoso e immaginifico. Fatto di rintocchi martellati, di vibrazioni telluriche al grave, di scoppi al centro e di stridori all’acuto, di rumori, di ritmi sminuzzati e polvere di suoni granulati in riverbero. E, naturalmente, di voci, in bilico fra canto, parlato e puro suono. Il tutto, dominato da una pregnanza dalla forza cinematografica, in profonda simbiosi con tutti gli elementi dello spettacolo.

Accolto da vivissimi, meritati consensi, il Julius Caesar in due atti fortemente voluto dai vertici oggi purtroppo in uscita (il sovrintendente Carlo Fuortes è dallo scorso luglio amministratore delegato della Rai, mentre il direttore musicale Daniele Gatti, chiudendo qui il suo felicissimo e pluripremiato triennio capitolino, passerà sul podio del Maggio Musicale Fiorentino) era stato progettato già da qualche anno unitamente alla direzione artistica di Alessio Vlad. Ruolo fondamentale, quest’ultimo, di cui altrove con dannosa genericità si pensa di poter fare a meno, scivolando sempre nei medesimi titoli e nelle solite voci passepartout, magari pure stellari ma a fine carriera. Infine, il nostro Julius, realizzato in prima assoluta e con allestimento ad hoc per l’Opera di Roma, in apertura della nuova Stagione lirica e di balletto 2021/22 al Teatro Costanzi.

Diciamo subito, per intelligenza delle premesse e valore assoluto degli esiti, che si è trattato di una “prima” esemplare per le Fondazioni liriche tutte, radicata come non mai nell’identità più autentica e antica dei luoghi di Roma, su un’idea attualissima del potere cesareo e della congiura riletta con gli occhi di uno dei più alti testi della letteratura teatrale internazionale dell’era elisabettiana, quindi operazione confezionata affidandone – coraggiosamente in posizione inaugurale – la realizzazione drammaturgico-musicale nelle mani della contemporaneità. Pertanto, oltre alla già rodata, vincente intesa fra il testo in lingua originale inglese (con un paio di inserti da Orazio e Catullo in latino, più un lamento elisabettiano) di Ian Burton e le note italiane del compositore d’alta scuola Giorgio Battistelli (formazione con Stockhausen e Kagel, assimilazione dei modelli post-seriali di Ligeti, Boulez, Berio, Nono e Maderna, più Cage per i fondamentali concetti di silenzio ed alea, tra l’altro prossimo Leone d’oro alla carriera conferito dalla Biennale Musica di Venezia), il lavoro si è avvalso della moderna quanto lucidissima, a tratti ironica visione registica di Robert Carsen (autore con Peter Van Praet anche del fondamentale, perfetto gioco delle luci e delle ombre), sempre molto attento alle finalità espressive o meccaniche del sia pur minimo dettaglio prossemico da applicare al singolo personaggio come all’insieme e alla massa. Il Coro ad esempio, vocalmente preparato a meraviglia dal maestro Roberto Gabbiani per tener testa a una miriade di asperità e sfaccettature dall’articolazione assai complessa, sia entro che fuori le quinte, è spesso presente di spalle (come noi spettatori), alla luce di quel legame centrale e polifunzionale dato dalla produzione greca classica che ne fa lo snodo fra i piani interno-esterno della finzione sul palco e della fruizione oggi in sala. Di conseguenza essenziali quanto di massima suggestione le soluzioni sceniche consegnate, con mirabili cambi a vista, da Radu Boruzescu: una parete marmorea curva a due ingressi, utilizzata sia per i propiziatori Lupercali iniziali trasformati in acceso corteo elettorale, sia per gli interni degli studi di Cesare e Bruto mentre, per il Senato, una cavea dalle irte gradinate con poltrone rosso vivo pressoché identiche a quelle della sede italiana a Palazzo Madama. Cavea che, ruotata di 180 gradi, diventa nell’atto II con la sua impalcatura suburbana di tubi innocenti significativo retroscena dei luoghi macedoni fra Sardi e Filippi della guerra civile, vinta dal secondo triumvirato capitanato da Marco Antonio e dal futuro imperatore Ottaviano contro gli assassini di Cesare, spinti a morte dallo spettro di quest’ultimo. Più che centrati, e naturalmente tutti in chiave odierna, gli abiti di scena creati da Luis F. Carvalho: eleganti completi scuri per tutti i senatori (camicia a tiro, cravatta regimental, giacca e pantaloni in grigio per Cesare, in blu per tutti gli altri, più valigetta ventiquattrore), abiti di routine (jeans, felpe, giubbotti, piumini, basco o berretto in lana) per il popolo romano, vestito da strada per l’indovino, sottoveste in raso senape, vestaglia amaranto e scarpe rosse per l’unica interprete femminile Calpurnia, semplicemente giubbini antiproiettile e mitra per trasformare i cospiratori sul campo di battaglia.
Al margine, è il caso di segnalare che il Julius Caesar, nato dalla terza collaborazione fra il librettista dello Yorkshire e il compositore di Albano Laziale, fa parte di un più ampio disegno dedicato in trilogia dal premiato triumvirato Burton-Battistelli-Carsen a tre diverse fasi della creatività shakespeariana (a cornice ci sono il già visto e ampiamente apprezzato Richard III e il futuro Pericle); che l’opera ha inaugurato per la prima volta, in tempi recenti, la stagione al Costanzi dopo l’unico, altro precedente risalente al 1901 con Le maschere di Pietro Mascagni e che il solo, altro esempio su pari soggetto storico-drammatico presente nella storia del teatro musicale è il Giulio Cesare in Egitto composto in epoca barocca da Händel.

Come intuibile, una massima quota nella responsabilità dell’opera spettava al podio e dunque all’ancora una volta trionfante interprete Daniele Gatti per il sapiente dominio e la sensibilissima restituzione di una partitura dalle dinamiche estreme e spesso spinte in continui picchi d’intensità serrati tra forcelle, fra tracciati ritmico-timbrici variegatissimi, suoni fissi, glissandi, gorghi, pulviscoli e concrezioni, rarefazioni (i due finali d’atto si spengono entrambi in dissolvenza) e parossismi da costruire o tarare in itinere entro un’architettura pur saldamente concepita e strutturata. Settecentocinquanta pagine divise infatti in due atti, ciascuno in cinque scene, coro esterno o interno, in funzione teatrale protagonistica o dialettica, cantata o meramente timbrica innestata sugli strumenti in orchestra, come già nell’Ouverture; preludi e interludi strumentali, forme melodrammatiche aperte, sospensioni fra canto e suono o praticamente chiuse, come l’aria di Cassio “Why, man” (I.2), gli ariosi dello scattante racconto di Casca (“I can as well be hanged”, stesso atto e stessa scena) sul tempo di un sardonico valzer, il lamento ”O, pardon me” (I.5) e l’orazione con Coro di Antonio “Friends, Romans, countrymen” (II,1).
Non poche ma fugaci le sollecitazioni musicali di un Novecento storico presente più che in citazione quale opportuna memoria e chiaro solco (Šostakovič teatrale, Prokof’ev filmico, il Musorgsky dei “Quadri”, lo Strauss di “Elektra”, lo Stravinskij di ”Œdipus rex” e del “Sacre”, Britten, Henze), con un paio di lampi dai secoli precedenti (il “Don Carlos” ma anche l’ondeggiare degli archi nel Coro d’apertura dell’”Otello” verdiano, e persino i trilli “agghiacciati” in ribattuto dei violini ad incipit dell’Inverno di Vivaldi). E, su tutti, due i colpi di teatro di massimo impatto, in apertura e chiusura della scena V dell’atto I, come a sigillare il regicidio dalle ventitré pugnalate: il primo, prende forma nel buio, lungo un impressionante crescendo scosso dalla lastra del tuono e culminante a piena orchestra. Il Coro è di spalle, dinanzi alla gradinata del Senato laddove una sorta di marcia al supplizio alla Psycho, scolpita dal martellare ostinato alle campane tubolari più timpani, anticipa come un pauroso battito cardiaco l’atroce atto delittuoso. In coda, con chiaro affondo sui ribaltamenti politici dei nostri giorni (la bandiera italiana avvolge non a caso il cadavere di Cesare portato a spalla fra il popolo romano lungo il corteo funebre che apre l’atto a seguire) ma, anche, in evidente aggancio con il recente assalto a Capitol Hill, svetta la chiusa con le luci accese d’improvviso in sala mentre Antonio, dopo la lettura del testamento che riabilita il dittatore, intona e annuncia che “la furia intestina e una crudele guerra civile devasteranno l’Italia in tutte le sue parti” sullo sfondo acustico di armonici sovracuti agli archi fra nervosi segni d’interiezione al pianoforte.

Di rinvio, è d’obbligo sottolineare la bravura di tutti gli organici in campo. Si parte dalla tredici voci soliste, tutte straniere tranne il caso del triplice ruolo (servo di Cesare, Titinius e quarto plebeo) toccato al baritono Alessandro Verna. Voci impiegate a vario titolo secondo il registro (cinque tenori, cinque baritoni, due bassi e un mezzosoprano) e con diversa formula oscillando tra l’emissione recitante in Sprechstimme, le deformate proiezioni del canto-parlato in Sprechgesang, aria o arioso e canto urlato per l’esordio di Calpurnia (“Help! They are murdering Caesar!” grida fuori scena dal suo incubo presago alla scena quarta dell’atto I), fino al vero e proprio urlo primitivo schönberghiano, Urshrei, durante la furia omicida dei senatori. Solidissimo per intonazione, metrica e colori poi il Coro, diviso o misto, e così l’Orchestra di circa settanta elementi con impegno da premiare innanzitutto degli ottoni, dell’arpa e di un esercito di percussioni, con due gruppi di rinforzo nei tre più tre palchetti di prima fila ai lati del proscenio, lastra metallica e macchina del vento, più elettronica e voce arcana al sample. Notevolissimo anche il lavoro degli archi e dei legni, corno inglese in primis.

Lodi, infine, per tutti gli interpreti del cast: in testa, per il fiero ma giusto Julius Caesar del basso Clive Bayley e per il duttile baritono Elliot Madore per un Brutus che ben concilia articolazione espressiva, accenti e posizione dei suoni, quindi per il deciso quanto infido Cassius del tenore Julian Hubbard, per l’ottimo baritono Dominic Sedgwick, Antony di sincero slancio e dal nobile cantabile, per il bel mezzo carattere scolpito con mille dinamiche dal tenore Michael J. Scott nella parte di Casca, per la viva drammaticità della consorte di Cesare, Calpurnia, affidata alla brava Ruxandra Donose. Completavano il sistema dei personaggi Hugo Hymas (Lucius), Alexander Sprague (Octavius), Christopher Lemmings (nel doppio ruolo di Marullus e Cinna), Christopher Gillett (Indovino e I Plebeo), Allen Boxer (Flavius, Metellus e II Plebeo) e, con particolare rilievo, Scott Wilde (Decius e III Plebeo) e il citato Alessio Verna.
Ampi gli applausi al termine per ogni artefice e artista impegnato fra buca e palcoscenico, onori speciali per Daniele Gatti e, per chi avesse perso lo spettacolo dal vivo, Julius Caesar è per fortuna visibile in HD sulla piattaforma di RaiPlay.

Teatro dell’Opera – Stagione 2021/22
JULIUS CAESAR
Tragedia in musica
Libretto di Ian Burton
da William Shakespeare
Musica di Giorgio Battistelli

Julius Caesar Clive Bayley
Brutus Elliot Madore
Cassius Julian Hubbard
Antony Dominic Sedgwick
Casca Michael J. Scott
Lucius Hugo Hymas
Calpurnia Ruxandra Donose
Octavius Alexander Sprague
Marullus / Cinna Christopher Lemmings
Indovino e I Plebeo Christopher Gillett
Flavius / Metellus / II Plebeo Allen Boxer
Decius / III Plebeo Scott Wilde
Servo di Cesare / Titinius / IV Plebeo Alessio Verna

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia Robert Carsen
Scene Radu Boruzescu
Costumi Luis F. Carvalho
Luci Robert Carsen e Peter Van Praet
Opera commissionata dal Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento e prima rappresentazione assoluta

Roma, 28 novembre 2021

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