Un immenso, doppio piano circolare praticabile color piombo, a cinque gradini concentrici e in ripida inclinazione verso il proscenio. In alto, sospesa e dominante al centro, una grande semisfera di cristallo entro la quale, su un ledwall che è occhio e specchio del reame narrante, flusso di coscienza della protagonista e come lei “sole fra i pianeti”, prendono forma e si dissolvono roghi, temporali e battaglie, una corona poi una spada, una farfalla che sbatte le ali in fiamme, visioni della Vergine, lacrime e sangue. E, ancora, teschi, un pianeta estinto e uno stendardo lacerato, un’icona bizantina di Cristo, il rosone policromo della Cattedrale di Reims sgretolarsi in cenere come a ricordare il recente, drammatico fuoco di Notre-Dame, un bouquet di peonie, luce di un’estasi. Inoltre, a scorrimento in parallelo alla Sinfonia d’apertura, un’intera citazione: “Ogni uomo dà la sua vita per ciò in cui crede. Ogni donna dà la sua vita per ciò in cui crede. Spesso le persone credono in poco o niente e tuttavia danno la propria vita a quel poco o niente. Una vita è tutto ciò che abbiamo e noi viviamo come crediamo di viverla. E poi è finita. Ma sacrificare ciò che sei e vivere senza credere, quello è più terribile della morte”. Nell’estremo racconto visivo del dettaglio, in effetti, la soluzione risulta un po’ didascalica ma, nell’intelligenza dei mirati agganci con il libretto di Solera tratto da Schiller, a fronte della mancanza di azione e nell’imponenza planetaria di una struttura scenica unica e fissa che funge idealmente sia da voragine psichica che da inclinato girone mistico-medievale popolato da una moltitudine di angeli e demoni, il nuovo allestimento firmato per regia e coreografia da Davide Livermore per la Giovanna d’Arco di Giuseppe Verdi al Teatro dell’Opera di Roma, risponde in verità a meraviglia. Merito, anche, delle notevolissime scene di Giò Forma, dei suggestivi costumi senza tempo di Anna Verde, delle luci magnifiche di Antonio Castro più i video di D-Wok.
Le impressioni sono tante. E forti. Da cogliere innanzitutto nell’esatta disposizione e nella non semplice riconoscibilità delle masse fra borghigiani, popolo di Reims, soldati francesi e inglesi, ufficiali, dignitari, alabardieri, vescovi, dame, cavalieri e quant’altro, nonché nella prossemica e nella sensibilità gestuale ritagliata ad arte per i tre protagonisti. Punto-cardine, il costante impiego del Corpo di Ballo della Fondazione lirica capitolina, diretto da Eleonora Abbagnato, per render tattile la dicotomia di fondo, perennemente sottesa tanto al testo quanto alla musica, fra i poli del bene e del male, fra la santa devozione e le ombre della stregoneria vissute nella mente e sulla propria pelle dalla fanciulla guerriera di Orléans. Ragione in base alla quale, per il ruolo eponimo, Livermore s’inventa un doppio coreutico: una Giovanna velata che, affidata alle linee raffinate della prima ballerina Susanna Salvi, evidenzia nella giovane donna la scissione fra anima e corpo, fra la tensione verso la missione santa e i sentimenti legati al mondo terreno, così come ben ci raccontano le dichiarazioni amorose del Delfino di Francia rivolte verso la figurante e non verso l’interprete cantante e, nel Finale ultimo, lo scambio sublimato dei ruoli fra il corpo esanime e l’eroina che svetta con il patrio stendardo dinanzi alla sfera di luce. A ciò si aggiunga il sipario color bronzo tagliato in trasversale da una croce attraverso cui è possibile sbirciare i cambi di scena fra gli atti, a mo’ di tagli per gli occhi degli elmi medievali in ferro, la stilizzazione della foresta di querce con semplici pali calati d‘improvviso in circolo dall’alto e le candide tende di velo mosse delicatamente dal vento nel giardino della Corte di Reims a ribadire la semplice purezza di Giovanna, pur sempre fanciulla di campagna, nello staccare la romanza “O fatidica foresta”.
Quel che poi risulta dalla direzione di una partitura del primo Verdi di fase patriottica, storicamente oggetto di pareri critici discordi, è un apice assoluto d’intesa fra segni e stile, significati e significanti affidata com’è, nell’occasione, alla rara sapienza analitica e alla grande forza drammaturgico-musicale di Daniele Gatti. Un’intesa andata ulteriormente a premiare la già di per sé lodevole proposta del Verdi meno frequente nei cartelloni lirici d’Italia e, difatti, titolo assente da quasi mezzo secolo dall’unica altra rappresentazione al Costanzi, nell’anno 1972. Al di là delle sempre efficacissime scelte metriche, dello smalto vivo conferito ai colori, della salda coesione dell’insieme e della cura estrema nel rapporto con le voci, il Direttore musicale uscente dal podio dell’Opera di Roma ha individuato e scontornato con straordinaria plasticità di ritmi e tinte i fondamentali tracciati dell’opera articolata in un Prologo più tre atti e qui, come da prassi, divisa in quattro atti. Già solo l’Ouverture tripartita, esaltando al meglio quanto predisposto da Verdi, ne svela in filigrana il microcosmo: il deflagrare onomatopeico di una tempesta a metafora dei fuochi di battaglia, il ricamo concertato dei legni a richiamo del ranz de vaches di matrice rossiniana, la trasfigurazione tonale e drammaturgica di Giovanna, da fanciulla pastorella a donna indomita e guerriera. A seguire, fra tornitura di scene e ampi archi drammatici, un intero spettro di risorse tecnico-dinamiche ed espressive quali l’estesissimo range fra le velature in pianissimo e i teatrali scoppi a tutta forza, il lavoro di scavo nel restituire le diverse passioni, la caratura dei piani e luoghi sonori fra l’orchestra, la banda e i vari gruppi corali, questi ultimi nel piglio e nel timbro magnificamente preparati dal Maestro Roberto Gabbiani. Folgoranti inoltre i clangori delle marce militari, delle turbolenze in cielo e in terra, le impennate degli slanci eroici e la baldanza sincopata delle strette, così come delicatamente discreti gli accompagnamenti nei momenti di dolore o mestizia, di morbida cantabilità nell’ondeggiare dei valzer, la dialettica fra il tema alquanto naïf del demoniaco grottesco e la sfera degli eletti, fino al culmine di luce sonora nell’ascesa mistica. Tanti e chiarissimi, tra l’altro, gli spunti del Verdi a venire. All’Orchestra della Fondazione, naturalmente, va intanto il merito di tradurre con puntualità e lucentezza il pensiero e il gesto di Gatti, sfoderando un’impeccabile sezione degli archi, legni e ottoni di grande qualità, percussioni infallibili. Una segnalazione speciale meritano Vincenzo Bolognese al primo violino di spalla, Luca Vignali al primo oboe, Massimo Bastetti al primo violoncello e Fabio Severini al corno inglese, Angelo Miele all’armonium, Davide Borgonovi al cimbasso.
Come da necessità della scrittura in pentagramma, infine, tutte di alto pregio le voci dei protagonisti in campo. Tecnicamente solida quanto svettante con emissioni sfogate in costante tensione verso un’evidente ricerca di una trascendenza in zona acuta, spesso chiusa ben sfumando i suoni, è la Giovanna del soprano georgiano Nino Machaidze, al suo esordio nel ruolo. Più che fanciulla vulnerabile, è donna autentica, indomita e guerriera, pronta a difendere con la sua missione santa la Francia e il suo futuro re. Semplice ma già ricca di passione è infatti la sua cavatina (“Sempre all’alba ed alla sera”) d’impronta belcantistica, una preghiera alla Vergine Maria a metà strada fra gli stili agilmente fioriti di Donizetti e Bellini; quindi sale in quota con la cabaletta al fianco del Delfino “Son guerriera che a gloria t’invita” e combatte turbata con tutte le sue forze nello splendido, lungo duetto a chiusura dell’atto II giocato sulla netta contrapposizione musicale e d’animo al fianco del suo sovrano. In crescendo nel duetto in ceppi accanto al non veduto padre e in trionfo nell’estasi finale.
Ben più rodato nel suo personaggio, il tenore Francesco Meli restituisce carattere e cuore a un Carlo VII vocalmente scolpito costantemente sul fiato, a pieni polmoni e con nobili volute melodiche, sin dal racconto del sogno in apertura e dall’intensa cabaletta “Pondo è letal, martiro”. Il suo timbro è giovane e sincero, intatto nei passaggi e squillante all’acuto, avvolgente nei cantabili e sensibilmente commosso nella delicatezza della romanza con cui al termine piange la morte di Giovanna, accompagnato dal prezioso intarsio di violoncello e corno inglese sul pizzicato degli archi.
Superbo quanto poi messo a segno dal Giacomo del baritono Roberto Frontali, vibrante nelle sue preoccupazioni di padre e profondamente pentito per gli errori commessi. Il suo breve arioso in forma di preghiera (“Cielo, m’assisti a discoprire il vero!”) incastonato tra il fragore dei tuoni già ne disvela la statura canora, annunciandone la ricchezza degli armonici e la profondità d’espressione, la tempra degli accenti e la perfezione dei suoni.
Completavano il cast, l’ottimo basso Dmitry Beloselskiy nella parte del supremo comandante degli inglesi e Leonardo Trinciarelli per Delil, ufficiale del re.
Al principio e al termine un lunghissimo, speciale applauso per Daniele Gatti, consensi a scena aperta per i protagonisti nel corso dell’intera opera e trionfo finale per tutti gli artisti sul palco, in buca e dietro le quinte.
Teatro dell’Opera – Stagione 2020/2021
GIOVANNA D’ARCO
Dramma lirico in quattro atti
Libretto di Temistocle Solera
Musica di Giuseppe Verdi
Giovanna Nino Machaidze
Carlo VII Francesco Meli
Giacomo Roberto Frontali
Talbot Dmitry Beloselskiy
Delil Leonardo Trinciarelli
Orchestra, Coro e Corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia e coreografia Davide Livermore
Scene Giò Forma
Costumi Anna Verde
Luci Antonio Castro
Video D-Wok
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
con elementi scenici del Palau de les Arts Reina Sofía, Valencia
Roma, 24 ottobre 2021