Già ampiamente affermata dopo anni di gavetta su alcuni dei principali palcoscenici operistici, giunge finalmente al debutto discografico il mezzosoprano franco-armeno Varduhi Abrahamyan, con un cd solistico di esordio intitolato Rhapsody, pubblicato da Decca Classics lo scorso 2 aprile per la collana Mentored by Bartoli. La diva italiana che ha venduto oltre 12 milioni di dischi, da qualche anno cura infatti con generosità e passione progettuale un suo catalogo per Decca dedicato a talenti più o meno noti al grande pubblico ma per un motivo o per l’altro ancora ignorati dal mercato discografico. Bartoli si spende quindi di persona, usando la sua fama per fare da volano alla carriera di suoi giovani colleghi, oltre a guidarli nella scelta e studio del repertorio da portare in sala di incisione. Lo fa nelle vesti di mentore e produttore esecutivo della registrazione, grazie alla sua Cecilia Bartoli Music Foundation, che da anni si spende per dare visibilità e opportunità concrete a giovani talenti. Dopo aver scelto Javier Camarena per il debutto della collana Decca con il cd Contrabandista, pubblicato nel 2018 e dedicato al tenore e maestro di canto Manuel Garcia (1775-1832), per la seconda pubblicazione Bartoli cuce attorno ad Abrahamyan un progetto molto interessante. Si tratta infatti di un omaggio a tutto tondo alla figlia minore di Garcia, Pauline Viardot (1821-1910), nel duecentesimo anniversario dalla sua nascita. Alla sorella decisamente più celebre di Pauline, la diva per eccellenza Maria Malibran (1806-1836), Bartoli aveva invece dedicato l’album-ritratto Maria nel 2007, sempre per Decca. Si completa quindi un vero e proprio ritratto di famiglia consegnato al disco. Questa sorta di trilogia della famiglia Garcia avrebbe dovuto costituire anche il concept di uno dei concerti di punta del Festival di Pentecoste 2020, poi cancellato a causa della pandemia. Lo scopo dell’incisione è quello di dare un’idea della versatilità della Viardot e, in questo repertorio variegato che va da Rossini a Saint-Saëns, Abrahamyan si destreggia egregiamente grazie alle peculiarità del suo duttile strumento, ma anche grazie alla versatilità del supporto strumentale di Les Musiciens du Prince-Monaco diretti da Gianluca Capuano.
Pianista allieva di Liszt, cantante, compositrice, insegnante e mecenate, Pauline Viardot non è stata solo sorella della superstar Malibran – scomparsa a soli 31 anni dopo un incidente a cavallo – ma grazie alla longevità della sua vita, la sua poliedricità e il rapporto con i compositori e artisti a lei coevi (Clara Schumann, Bizet, Gounod, Delacroix, Chopin e George Sand per citarne alcuni) ha rappresentato, pur senza avere la bellezza e la fama della sorella, una delle figure più influenti della cultura musicale europea dell’Ottocento, capace di rimanere rilevante attraverso diverse epoche della storia della musica, salvo poi cadere relativamente nel dimenticatoio. La sua era una voce non per tutti i gusti a causa di qualche durezza, ma in grado di stupire per potenza, estensione e virtuosismo ma soprattutto per espressività, abilità interpretativa e forza drammatica sulla scena. A lei Saint-Saëns dedica Samson et Dalila (di cui la Viardot eseguirà solo il secondo atto in forma di concerto con il piano). Pauline partecipa poi nel 1870 alla prima esecuzione pubblica della Rapsodia per contralto di Brahms. Su suggerimento di Berlioz, e in collaborazione con un giovane Saint-Saëns, una nuova versione dell’Orphée di Gluck viene creato apposta per lei. Canta in sei rappresentazioni di Sapho di Gounod, di cui facilita la composizione e il debutto sulle scene, mentre il ruolo di Fidès in Le Prophète, scritto appositamente per lei da Meyerbeer, diventa uno dei suoi cavalli di battaglia con oltre 150 rappresentazioni.
Ma veniamo a Varduhi Abrahamyan. Proveniente da una famiglia di musicisti e diplomata al conservatorio di Yerevan, la cantante ha già interpretato diversi ruoli gravitando principalmente sul belcanto (Arsace, Isabella, Malcolm, Benvenuto Cellini), ma spaziando anche verso il barocco (Ruggero, Bradamante, Cornelia, Polinesso), il repertorio francese (Carmen, Dalila) e saltuariamente cimentandosi con alcuni ruoli verdiani (Eboli, Ulrica, Preziosilla, Quickly). Atteso il suo debutto al MET come Olga in Evgenij Onegin e Maddalena in Rigoletto nella stagione 2021/2022.
Il suo è uno strumento che è difficile ingabbiare in un registro ben preciso, dal momento che sonorità e colore farebbero pensare a un contralto, anche se poi l’estensione e la capacità di navigare tessiture medio-alte è quella del mezzo. Ecco che la cantante, come in questo disco, può giocare a cavallo di un repertorio abbastanza ampio.
Munita di un timbro dalle tinte brunite e calde, Abrahamyan gode di una voce ben tornita e pastosa, particolarmente densa nei gravi (anche se a volte un po’ compiacente con le note di petto) ma anche ben estesa e svettante in acuto. Molto musicale, sfoggia anche un temperamento passionale e un mordente drammatico evidente negli accenti, nei recitativi e nelle agilità di forza. Non tutto è fluido nel suo canto e ogni tanto si assiste a qualche durezza metallica o disconnessione di registro, ma si tratta di uno strumento molto interessante per possibilità esecutive e coloristiche.
La registrazione si apre con Rossini con due ruoli interpretati da Viardot durante la sua carriera di cantante. Abrahamyan, che aveva già cantato il ruolo di Arsace al ROF 2019, interpreta “Eccomi alfine In Babilonia” da Semiramide di Rossini, plasma il recitativo con grande temperamento e sfodera una tecnica pregevole nella gestione delle colorature, rivestita di un colore bronzeo-brunito e di un fraseggio voluttuoso da amoroso. Sempre del compositore pesarese viene proposto il duetto Malcom-Elena “Viver io non potrò” da La donna del lago con Cecilia Bartoli in una breve comparsata nel ruolo di Elena, già interpretato dalla cantante italiana a Salisburgo nel 2017. Le due dimostrano una buona chimica e comunione di intenti con sintonia stilistica nell’uso degli accenti e nell’espressività del canto.
Abrahamyan dà poi sfoggio del suo virtuosismo in “Amour, viens rendre à mon âme” da Orphée et Eurydice di Gluck nell’edizione del 1859 di Berlioz con orchestrazione di Saint-Saëns e cadenza finale ideata di comune accordo da Berlioz, Saint-Saëns e la Viardot stessa. Pur non raggiungendo i livelli elettrizzanti di Ewa Podleś in questo brano, Abrahamyan esibisce una notevole libertà nel muoversi su e giù per lo spartito con grande spessore vocale sia nei gravi che in acuto. La cadenza finale viene eseguita correttamente con una sfolgorante scala cromatica dagli inferi alle stelle, se così si può dire.
Si cambia completamente registro con la Rapsodia per contralto Op. 53 di Brahms dove l’interprete delinea un fraseggio sentito con un registro contraltile ben tornito, anche se la resa finale è inficiata da un tedesco decisamente perfettibile. Pregevole invece l’intervento del coro maschile da parte dell’Ensemble vocale Il canto di Orfeo.
In “Mura Felici..Elena! oh tu, che chiamo! Oh quante lagrime finor versai” da La donna del lago di Rossini, Abrahamyan dà ancora sfoggio di una tecnica invidiabile sciorinando tutte le fioriture con grande musicalità. L’interprete usa la sua palette ampia di colori e dinamiche oltre a sottolineare con attenzione il testo in “Ô ma lyre immortelle” da Sapho di Gounod, presa a dir la verità a tempo un po’ troppo spedito per il carattere del brano. In “Mon cœur s’ouvre à ta voix” da Samson et Dalila di Saint-Saëns, la cantante è elegante e nel sfoggiare acuti lucenti e centri seducenti, anche se potrebbe rendere più avvolgente il fraseggio. “Donnez, donnez” da Le Prophète di Meyerbeer viene interpretata con espressività e magniloquenza.
A conclusione della registrazione e come omaggio alle radici della cantante e alla passione della Viardot per la musica folk – anche armena – che l’artista amava inserire nei suoi concerti, viene proposto un brano della tradizione dell’Armenia, “Krunk” di Komitas con un suonatore di duduk, un antico strumento armeno della famiglia degli oboi ad ancia doppia. Su sonorità dal fascino orientale, il mezzosoprano si abbandona con trasporto a un canto dolente e melismatico innestato su lunghi fiati che al termine formano quasi un unisono con il duduk fino a spegnersi in un niente enigmatico. La connessione con la sua terra – martoriata da uno dei più vergognosi e dimenticati genocidi della storia e ancora oggi oggetto di tentativi di invasione come avvenuto lo scorso anno – è evidente.
Les Musiciens du Prince-Monaco è un’altra creatura di Cecilia Bartoli, nata sotto il patrocinio dei Principi di Monaco con l’idea di ricreare un’orchestra di corte, e poi affidata da qualche anno alla direzione stabile di Gianluca Capuano. Trattasi di una formazione dedita alla prassi esecutiva storicamente informata su strumenti originali che raccoglie i migliori musicisti da tutta Europa e che da qualche anno accompagna Bartoli nelle sue tournée europee e nei principali appuntamenti del Festival di Pentecoste a Salisburgo. Non si tratta di una formazione di puri “baroccari”, come alcuni detrattori del genere sono soliti definire queste formazioni in senso dispregiativo. Al contrario si tratta di musicisti e solisti di alto livello, capaci veramente di spaziare attraverso i generi con versatilità, come ben dimostra questo disco, peraltro non di musica barocca. È un tipo di formazione questa che sa ben dialogare con i cantanti, supportandoli e mai sovrastandoli, una dimensione a cui spesso non siamo abituati. Spicca come formazione strumentale nella “Bacchanale” da Samson et Dalila dove è tutto un’esplosione di tinte ed atmosfere lussureggianti e orientaleggianti, anche se senza lo spessore sonoro di un’orchestra moderna. È invece spinta ai limiti nella Rapsodia di Brahms dove forse la scelta di usare una formazione di questo tipo è azzardata. Saltuariamente nel corso della registrazione si assiste a qualche secchezza o durezza degli archi nei momenti più concitati o ritmati. Nel complesso però emerge una grande versatilità, specialmente a confronto con altri complessi ancora più specialistici e limitati nelle possibilità di repertorio, quindi un plauso speciale va a Capuano che ha modellato una formazione così eclettica. Ben curati anche gli interventi delle percussioni, gli accompagnamenti obbligati (raffinatissima l’arpa di Tiziana Tagliani) e gli interventi solistici dei fiati, sempre vitali ed espressivi.
Le note al cd, firmate da Markus Wyler, sono molto esaustive nel ripercorrere la vita e la valenza storica della Viardot. Tra le chicche contenute nel libretto anche la copia di una lettera di Hector Berlioz a Pauline Viardot del 1859 dalla collezione personale di Cecilia Bartoli recanti i suggerimenti di Berlioz su come affrontare la cadenza dell’aria di Gluck. Il disco è stato registrato nel Teatro Galli di Rimini, un gioiellino la cui acustica brillante appare ideale per mettere in risalto le possibilità coloristiche, sia dell’interprete che degli strumentisti. L’antologia di brani proposti è ben curata anche se tralascia un aspetto del personaggio che avrebbe potuto completare il ritratto, ovvero quello della Viardot come compositrice: forse l’inserimento di una delle sue canzoni avrebbe giovato al progetto. Quanto ad Abrahamyan si tratta decisamente di una buona prova per un primo disco, con un programma per certi versi ambizioso in quanto rifugge da intenti puramente commerciali di un lancio discografico generalista, anche grazie alla regia e supervisione artistica di Cecilia Bartoli, sempre più a suo agio nelle vesti di mentore, impresario e talent scout.
RHAPSODY
Varduhi Abrahamyan mezzosoprano
Gianluca Capuano direttore
Les Musiciens du Prince-Monaco
Con la partecipazione di Cecilia Bartoli e
Ensemble vocale il canto di Orfeo
Etichetta: Decca Classics – “Mentored by Bartoli”
Registrazione effettuata al Teatro Galli di Rimini
tra il 2 e il 9 settembre 2019