La programmazione operistica che Rai Cultura dedica questa settimana alla regista Emma Dante continua su Rai5 mercoledì 20 gennaio, alle ore 10.00, con L’angelo di fuoco di Sergej Prokof’ev, andato in scena al Teatro dell’Opera di Roma nel 2019 con Alejo Pérez sul podio. Nel cast Ewa Vesin, Leigh Melrose, Anna Victorova e Mairam Sokolova. Regia tv di Carlo Gallucci. Riproponiamo qui la recensione dello spettacolo realizzata per Connessi all’Opera da Giuseppe Montemagno.
«Esiste un quadro di Klee che si intitola Angelus novus. Rappresenta un angelo che sembra aver pensato di allontanarsi da ciò a cui il suo sguardo sembra indirizzarsi. I suoi occhi sono spalancati, la bocca aperta, le ali spiegate. Tale è l’aspetto che deve necessariamente avere l’angelo della storia. Ha il volto rivolto verso il passato. Dove ai nostri occhi appare una successione di eventi, egli non vede che una sola e unica catastrofe, che non cessa di ammonticchiare rovine su rovine e le getta ai suoi piedi. Vorrebbe attardarsi, risvegliare i morti e raccogliere i vinti. Ma dal paradiso soffia una tempesta che si è rappresa nelle sue ali, così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge senza posa verso l’avvenire al quale volge le spalle, mentre davanti a lui le rovine s’accumulano fino al cielo. Questa tempesta è ciò che chiamiamo progresso.»
Angeli e demoni. Furono anni intensi e terribili, quelli immediatamente successivi alla Grande Guerra: in cui l’inferno sembrava aver scoperchiato le sue porte per inghiottire il mondo, mentre angeli inquieti volavano in un cielo che sembrava essersi oscurato per sempre. Così Walter Benjamin – nelle sue celeberrime Tesi sul concetto di storia – descriveva uno dei più enigmatici acquarelli di Klee, per la prima volta esposto a Monaco di Baviera nel 1920. Ed è proprio nello stesso torno d’anni che Sergej Prokof’ev attende all’Angelo di fuoco, dal 1919 al 1927, opera rappresentata postuma soltanto nel 1955, quando venne tenuta a battesimo – in versione italiana! – alla Fenice di Venezia per la Biennale. Partitura tra le più visionarie, e per questo inafferrabile, del compositore sovietico, è opera di rarissima esecuzione: l’Opera di Roma – dove è trionfalmente tornata sulle scene, facendo registrare anche un inatteso ‘tutto esaurito’ per le ultime recite – ne vantava un unico precedente, nella primavera del 1966, affidato alle cure di due specialisti del repertorio di primo Novecento come Bruno Bartoletti e Virginio Puecher.
Angeli e demoni volano sulla fossa di un’Orchestra in gran spolvero, che risponde alla bacchetta di Alejo Pérez con invidiabile precisione, con un nitore che esalta una scrittura sempre tesa, aguzza, tagliente. È una partitura sfuggente, solo parzialmente improntata a una trama leitmotivica di calco wagneriano, volutamente lontana da squarci lirici, che si materializzano solo quando compare la figura dell’Angelo, come dagli spunti ironici e grotteschi che, pochi anni prima, erano stati la chiave di volta dell’Amore delle tre melarance. Sempre attento al difficilissimo, impervio equilibrio con il palcoscenico, il direttore argentino punta piuttosto sulla ricerca di un colore orchestrale scuro e acuminato, mobilissimo e cangiante, di un suono per quanto possibile alleggerito ma sempre mirato a definire atmosfere inedite, stranianti, visionarie. Anche la compagine corale, magnificamente preparata da Roberto Gabbiani, viene impiegata quasi fosse un’ulteriore sfumatura cromatica di una caleidoscopica paletta timbrica. È una piacevole sorpresa, soprattutto per chi era abituato alla sontuosa, mirabolante opulenza della lettura di riferimento di Gergiev: qui tutto è cesellato a colpi di fioretto, nel progressivo crescendo orientato dalle atmosfere torbide e morchiose della locanda, su cui si alza il sipario; a quelle tenebrose e inquietanti dello studio di Agrippa, dove risuonano i sinistri colpi battuti dagli spiriti; fino al dinamismo cinetico e travolgente della scena del duello e all’energia, lentamente distillata fino alla deflagrazione finale, dell’orgia finale. L’impressione finale è di ascoltare un unicum non solo della storia del teatro musicale del Novecento, ma anche dello stesso catalogo di Prokof’ev: uno Stationendrama d’impronta sperimentale che precipita inesorabilmente verso la catastrofe, riservando momenti mozzafiato negli ultimi tre atti.
Angeli e demoni conquistano il palcoscenico, dove di rado si condensano presenze tanto numerose, unite da un afflato, da una lucidità interpretativa omogenea e coinvolgente. Su tutti giganteggia l’infaticabile Renata di Ewa Vesin, che mostra una sicurezza e una tenuta invidiabile sin dal primo, interminabile arioso – nei borborigmi con cui descrive il suo primo incontro infantile con l’Angelo di fuoco. Dispone di un metallo rilucente e prezioso, di uno strumento dalla proiezione ampia, distesa, capace di valicare la buca orchestrale e di imporsi per l’appassionata resa di un personaggio – tra i più impervi dell’intero repertorio – perennemente ancipite, arso dal desiderio, abitato dalla passione. Raccoglie una meritata ovazione per un impegno particolarmente gravoso, per la naturalezza, l’eleganza e la misura con cui tratteggia un’eroina mai sopra le righe, sempre attendibile pur nell’incredibile parabola punteggiata da ossessioni, incubi, allucinazioni. Ruprecht, interpretato da Leigh Melrose, ne è il rovescio della medaglia: dolorosamente, nobilmente grave, tetragono ai rovesci della fortuna, ben piantato su una vocalità monolitica, perfettamente strutturata, di ampia gittata espressiva. È, forse, l’interprete più in sintonia con lo scavo analitico operato da Pérez, con una lettura quasi cameristica dell’impervia partitura di Prokof’ev. Attorno a loro ruota una costellazione di cammei talora più importanti, talaltra limitati a pochissimi istanti, ma sempre di folgorante connotazione.
È il caso del Mefistofele di Maxim Paster, strepitoso, penetrante hohen Tenor nel solco della tradizione istrionica – quando non isterica – d’inizio secolo (si pensi a Herodes nella Salome di Strauss o al Capitano nel Wozzeck di Berg, estreme propaggini del Mime wagneriano), in coppia con lo smisurato, apocalittico Johann Faust di Andrii Ganchuk; mentre sul fronte femminile si distinguono l’abissale, inquietante Indovina di Mairam Sokolova, che alla fine veste anche i panni della vigorosa, castrante Superiora, come pure la poderosa Padrona della locanda di Anna Victorova, punteggiata dal marito, un beffardo Timofei Baranov. Latita invece la terribilità dell’Inquisitore di Goran Jurić, cui va accreditato semplicemente l’imponente physique du rôle, mentre meritano almeno una menzione l’enigmatico Agrippa di Sergej Radchenko, l’eloquente Jakob Glock di Domingo Pellicola, l’impettito Mathias di Petr Sokolov e l’ironico Medico di Murat Can Güvem, esilarante epigono del Maestro Spinelloccio pucciniano.
E poi c’è chi fa volare queste schiere di angeli e di demoni, Emma Dante. Che prende le mosse, per questo, da un presupposto inoppugnabile: i primi sono identici ai secondi, cherubini precipitati agli inferi, sottratti, strappati alla contemplazione dell’estasi divina. Riprende, così, un percorso che si snoda ormai di spettacolo in spettacolo, e che qui riparte dall’Eracle allestito esattamente un anno or sono al Teatro Greco di Siracusa. Ma laddove la tragedia euripidea era ambientata al limine tra la vita e la morte, in un cimitero dove centinaia di ritratti di defunti occhieggiavano ostili sulla cavea come sul destino dell’eroe folle, qui Carmine Maringola precipita la vicenda tra le Catacombe palermitane dei Cappuccini: la «locanda per viaggiatori» replica loculi in parte vuoti, in parte già occupati da chi ha già intrapreso l’ultimo viaggio, mentre Renata indossa l’abito rosa cipria della bambina mummificata, lì inumata proprio negli anni in cui Prokof’ev componeva l’opera. L’incipit in levare della partitura suscita l’effetto di chi solleva un velo sulla coltre di silenzio che avvolge una fiaba macabra: Ruprecht ne diventa il narratore, quasi suo malgrado, incerto viandante ai confini dell’esistenza. Nel racconto di Renata spira il soffio della vita: visualizzato da un Angelo di straordinario impatto scenico – una cresta punk, un costume candido quasi da ballet blanc ottocentesco – che Alis Bianca rende presenza magica, irreale e surreale, perfettamente in sincrono con le percussività martellanti dispiegate dall’orchestra.
È, forse, questa l’intuizione più interessante dello spettacolo di Emma Dante, che sin dalla Muette di Portici presentata all’Opéra-Comique nel 2012 si era confrontata con un’opera con una protagonista, per l’appunto, muta; e che qui firma uno dei suoi spettacoli più convincenti proprio perché mai sopra le righe, sempre rigorosamente ispirato a un senso del teatro straordinariamente coinvolgente. Ne sono prova – se necessario – i siparietti muti che fungono da interludio per i cambi scena: una folla di agguerriti, silenziosi lettori per introdurre l’atmosfera esoterica di una Colonia suggerita da compatte pareti di libri di magia; i «cani pelosi» che definiscono il clima fantastico del laboratorio di Agrippa di Nettesheim, proiezione di un altro ‘fantastico’, quello bestiale e animalesco delle streghe del recente Macbeth (2017); per finire con il combattimento a colpi di stampelle tra i due storpi che anticipano gli avventori dell’osteria di Colonia, figurette sbalzate con la forza icastica delle terrecotte quattrocentesche, citate nella processione di Cavalleria rusticana (2017), o della presepistica napoletana del Settecento. E il culmine viene raggiunto dall’arroventata scena del duello, magistralmente regolato da Sandro Maria Campagna, in cui lo scontro tra Ruprecht e un nobile, sprezzante Conte Heinrich (Ivano Picciallo) si sdoppia nelle incandescenti evoluzioni tra l’Angelo di fuoco e il suo doppio, tra un angelo bianco e uno nero, l’uno l’inverso dell’altro: per sovvertire il rapporto tra cielo e terra, considerati attraverso gli occhi di chi guarda il mondo alla rovescia.
Per questa via L’angelo di fuoco instaura un corto circuito non soltanto all’interno della teatrografia di Emma Dante ma anche, come sempre, tra la sala e la scena: sol che ci si soffermi a osservare come loculi, nicchie e finestre non sono altro che innumerevoli repliche dei palchi del teatro, occhi senza orbite ma non senza sguardi. Ecco, forse questa è la cifra che maggiormente colpisce dell’intero spettacolo: un’inquietudine sotterranea, impalpabile e profonda, che perfettamente traduce quella di Renata, i suoi desideri repressi, i suoi incubi visionari e terribili. E questo spiega un finale che non è soltanto – come sempre – un attanagliante coup de théâtre, ma anche una parziale deviazione rispetto a quanto immaginato dall’autore: perché il teatro di Emma Dante mette in scena l’errore, racconta la colpa, ma tutto finalizza nell’ottica dell’espiazione. Era stato così nella Muette, in cui Fenella, suicidandosi, si sacrificava per la collettività e, martire, trionfava su un altare circonfusa dalla gloria dei santi. Ed è stato così anche per questo Angelo di fuoco, pronto a fare i conti con una «fede imbalsamata». L’orgia nel convento, inizialmente, assume tratti d’insolito decorativismo, complici le preziosità dei sontuosi costumi scarlatti di Vanessa Sannino – talmente belli da evocare gli sfarzosi tableaux vivants cari all’estetica di Pizzi: quasi a voler raggelare, rallentare l’imperioso crescendo che porta al parossistico finale, a immagine del crocifisso scarnificato che fa da sfondo al convento, appena uno scheletro appeso come un tragico memento mori. Ma la ragione sta tutta nel senso del martirio, cui Renata s’affretta e va incontro quasi con gioia: indossati gli scuri, vellutati panni neri della Madonna dei sette dolori, accoglierà dall’Angelo l’ultimo pugnale, che le trafiggerà il cuore e la farà crollare sotto il peso di un’aureola, di una santità involontaria. La Pasqua può attendere, forse per sempre.
Photo credit: Yasuko Kageyama