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Rai5: Giovanna d’Arco dalla Scala con Anna Netrebko. Sul podio Riccardo Chailly

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Questa edizione di Giovanna d’Arco di Verdi inaugurò il 7 dicembre 2015 la stagione del Teatro alla Scala di Milano. Fu una scelta coraggiosa quella di aprire il cartellone con un’opera verdiana dei cosiddetti “anni di galera” fra le più bistrattate, che vide la luce nel 1845 proprio sulle scene scaligere. L’opera, ispirata al dramma Die Jungfrau von Orléans di Friedrich Schiller, ha un libretto di Temistocle Solera assai debole, la cui drammaturgia non aiutò certo il giovane Giuseppe Verdi nel comporre una musica che appare un passo indietro rispetto alla singolarità compositiva dei precedenti successi ottenuti con Nabucco e I Lombardi alla prima crociata alla Scala, e poi con Ernani a Venezia e I due Foscari a Roma.

Giovanna d’Arco non è un capolavoro, e se non fosse per alcune grandi interpreti (la creatrice della parte fu Erminia Frezzolini) interessate a non far uscire del tutto l’opera dal repertorio perché attirate delle molte possibilità di emergere offerte dal ruolo della protagonista (ci riferiamo, nel Novecento, soprattutto a Renata Tebaldi, Montserrat Caballé, Katia Ricciarelli, Mariella Devia e, oggi, ad Anna Netrebko), avrebbe continuato a non essere compresa e ad essere considerata come il prodotto di un Verdi minore. A far cambiare il corso di convinzioni spesso scontate, superficialmente legate a cliché critici tramandati da certa musicologia, provvide questa magnifica edizione di Giovanna d’Arco, oggi in onda su Rai5 alle 21.15 a ricordare quello che fu un grande evento.
I motivi di soddisfazione, all’ascolto come alla visione dello spettacolo, sono molteplici, tali da giustificare la saggia scelta di puntare su un titolo così insolito e comunque legato alla storia della Scala. Rodolfo Celletti, insigne studioso di storia della vocalità, annotava anni fa come quest’opera non sia – salvo naturalmente qualche passo – focosa, bellicosa e sanguigna come lo sono certi titoli del Verdi giovanile e come il soggetto dell’opera stessa darebbe a pensare. “Carlo VII, Giacomo e Giovanna, – scriveva Celletti – pur nelle strane parvenze loro imposte dal libretto, sono tre figure dolenti, allucinate, trasognate, che s’aggirano in un mondo di visioni e di incubi, preda di un misticismo elementare, brado, ma anche ambiguo e insidioso”.

Per non cadere nei molti tranelli del debole libretto di Solera, i geniali autori dello nuovo spettacolo scaligero, i registi Moshe Leiser e Patrice Caurier, pensarono a un terzo piano drammaturgico che si aggiunse alla duplice visione di una Giovanna d’Arco divisa fra la chiamata per volere divino all’eroico compito di salvare, in veste di vergine guerriera, il proprio popolo dall’invasore straniero e le pulsioni che la vogliono donna capace di innamorarsi e di cedere alle tentazioni della carne che la fanno rinunciare, per amore, alla verginità. Gli autori dell’allestimento pensarono dunque a una protagonista che non viene condannata al rogo, né muore ferita in battaglia ma vive il dramma privato della sua condizione di donna che, in costante oscillazione fra depressione e follia, si consuma per sfinimento emotivo, per non essere riuscita ad affermare la propria personalità di donna a causa del peso dei condizionamenti che la opprimono.
Il dramma, da pubblico, diviene dunque privata condizione psicanalitica, tormento quasi onirico di un subconscio ossessionato, diviso fra missione eroica e pulsione amorosa intesa come repressione sessuale. Giovanna vede tutti coloro che la circondano come lontano da lei, con il distacco di una nevrosi che nasce fin da subito dalla visione della sua stanza da letto, dalla quale prende le mosse il racconto del suo sogno di gloria e di amore irrealizzato. Le stesse voci esterne, quelle del popolo e quelle delle entità infernali e celesti sembrano in questo spettacolo potenziarsi sotto la lente di ingrandimento psicanalitica messa in essere dai registi, che vedono l’eroina distaccata da tutti: dal re Carlo VII, che appare come una statua tutta d’oro e per il quale l’eroina prova attrazione pur risultando per lei una figura astratta, e da Giacomo, il padre che la accusa, per il suo agire, di essere vittima dell’operato del demonio. Giovanna è dunque sola ed è come se avesse, nel suo subconscio onirico, l’unica via di uscita dinanzi a chi non la comprende tramite l’attaccamento ad una fede fatta di simboli religiosi feticistici.
Certo tale soluzione registica mostra componenti arbitrarie rispetto al libretto, ma appare di forza e verità drammatica così illuminanti da migliorare ciò che Solera non ottiene dai suoi fragili versi, donando loro quella coerenza che essi non possiedono. Per il resto l’impianto scenico di Christian Fenouillat e i costumi di Agostino Cavalca regalano momenti di suggestione visiva nell’uso di proiezioni video ideati da Étienne Guiol, con richiami pittorici alle tele di Paolo Uccello e con l’immagine di una cattedrale di Reims che si staglia gigantesca nel quadro della cerimonia di incoronazione del II atto. Tutto si sviluppa, con effetti scenici di grande effetto, dalle pareti di quella grigia stanza che durante la sinfonia d’apertura vede la protagonista sul proprio letto, in preda al suo delirio.

Chi comprende come da non sottovalutare siano le qualità musicali di questa partitura è anche Riccardo Chailly, direttore musicale della Scala al suo primo 7 dicembre all’insegna di un Verdi giovanile dalle tinte liriche spesso soavi e levigate. Trovare il colore giusto per quest’opera significa comprenderla e valorizzarla. Così fece Chailly, alla testa di un Orchestra e di un Coro, quest’ultimo superbamente preparato da Bruno Casoni, che suona con morbidezza e calore avvolgenti, trovando il giusto equilibrio fra ascendenze liriche di estrazione ancora donizettiane e un respiro verdiano di singolare calore melodico.

Qualità direttoriali che vengono messe a frutto dalla protagonista, una Anna Netrebko che già aveva cantato a Salisburgo quest’opera in forma di concerto mentre alla Scala, affrontandola sulla scena, e per di più in versione integrale, mette a segno una prestazione maiuscola per bellezza di timbro e assoluto controllo del mezzo vocale: una vera colata di suono denso e insieme luminoso. Della sua Giovanna d’Arco non si sa se ammirare di più la morbida delicatezza dei cantabili (vedasi il nostalgico involo donato all’aria “O fatidica foresta”), o l’impeto che dona agli accenti di “Son guerriera che a gloria t’invita”, fino a un commossa scena finale.
In stato vocale di grazia anche Francesco Meli, Carlo VII, che da bravo tenore di estrazione belcantistica, dotato di una voce di rara bellezza, si apprezza per la linea di canto cristallina e parimenti soffice, esaltando la bella frase melodica del duetto con Giovanna “È puro l’aere, limpido il cielo” e donando il giusto tono patetico alla romanza “Quale più fido amico”, con varietà di fraseggio e fascino espressivo da fuoriclasse.
Devid Cecconi, chiamato alla prima del 7 dicembre nei panni di Giacomo a sostituire l’indisposto Carlos Álvarez, fornì una prova altamente professionale, sfoggiando voce baritonale forse non sempre omogenea ma di autentico spessore e accento verdiani. Nelle repliche, il più noto baritono spagnolo, tornò sulle scene sfoggiando, oltre a un timbro pieno e nobile, qualità interpretative ed espressive alta levatura artistica.
Eccellenti anche Dmitry Beloselskiy, Talbot, e Michele Mauro, Delil, che completano il cast di questa Giovanna d’Arco, accolta dal pubblico con applausi trionfali. Una sfida vinta per la Scala, che ritrovava un Verdi tutto “suo”.

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