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Rai5: dal Teatro Regio di Torino, Medea di Cherubini con Anna Caterina Antonacci

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Strano a dirsi, ma quando il 5 ottobre 2008 Medea inaugurò la stagione del Teatro Regio di Torino, per la prima volta il pubblico torinese assistette a questo titolo di Cherubini, che aveva già avuto la sua renaissance nel Novecento grazie alla sconvolgente e mai più eguagliata interpretazione di Maria Callas. Eppure il Regio di quegli anni mise in campo le forze migliori per costruire uno spettacolo che Rai5 ripropone martedì 19 ottobre, alle ore 10, e che non deluderà l’ascoltatore, sia per la parte musicale che visiva.

Ne fu protagonista Anna Caterina Antonacci, donna bellissima e irresistibilmente fascinosa, che riprese allora la parte di Medea dopo averla già affrontata in quegli anni in Francia, a Tolosa e Parigi, e la portò per la prima volta sulle scene italiane del Regio nella revisione curata sulle fonti originali di Carlo Zangarini del 1909, quella che ha affossato l’originale in francese del 1797 con i parlati, oggi caduta in disuso. La sua Medea, che nella scena finale non disdegna di far ricorso ad alcuni segmenti declamati come fossero recitati, accentati con estrema classe, è agli antipodi rispetto al furore omicida e alla selvaggia scolpitezza d’accenti infuocati legati alla memoria della leggendaria interpretazione della Callas; vive il personaggio liberando la declamazione da ogni spigolosità, senza ruggire con la voce sbranando le frasi con forza belluina, ma esaltando i tormenti psichici della donna che alterna lucidità a follia concentrandosi sullo scavo della parola nobilmente stilizzata, come racchiusa in una nicchia di allucinata dimensione espressiva che smussa i contorni della rabbia e degli accenti grifagni a favore di un fraseggio che, in virtù del bel colore vocale brunito, rende il suo personaggio donna umiliata e offesa dall’abbandono più che maga corrosa dall’isteria punitiva. Il meglio di sé lo dona quando implora, quando esprime a Giasone la sua afflizione di amante e madre “vinta e afflitta” con dolente calore emotivo. Ma il suo “crudel” nel primo assolo, al pari che l’invocazione all’“implacabile Dea!” Erinni nella scena conclusiva dell’opera, non tuonano come si vorrebbe, lasciando forse la sensazione di essere dinanzi a un’eroina che alla sanguigna tragicità antepone la nobiltà di una recitazione asciutta, di una lacerazione intima sobriamente controllata e, forse per questo, più moderna e vicina, per volere dello spettacolo stesso, ai climi del neorealismo cinematografico.

Ovviamente la sua prestazione spicca in un cast che riserva altre belle sorprese nella Neris di Sara Mingardo, toccante al punto di commuovere nell’intonare l’aria con fagotto obbligato “Solo un pianto”, riuscendo a piegare la voce con struggente dolcezza sulla parola “pianto”. Anche Cinzia Forte, alle prese con l’ingrata e non certo facile parte di Glauce, regala un’interpretazione intelligentemente musicale del suo assolo del primo atto, liberandolo da ogni scontata e ingenua fragilità. Giuseppe Filianoti, Giasone di giovanile e appassionata configurazione scenica, sfoggia un timbro prezioso nella cavata schiettamente tenorile che si espande anche in centri corposi e sonori. Al basso Giovanni Battista Parodi, costretto dallo spettacolo a mostrare la regalità del personaggio vestendo giacca e cravatta, non mancano bella presenza scenica e levigatezza di fraseggio utili a delineare un Creonte elegante e signorile.

Altro punto di forza di questa Medea torinese fu la direzione di Evelino Pidò, sicuro riferimento musicale grazie a una concertazione dal passo veloce e netto, capace di sostenere le voci e valorizzarle al meglio. Non esaspera i turgori tragici romanticizzando l’incedere orchestrale, né tanto meno ingessa la classicità donando una compattezza troppo austera e rigida all’impianto dell’opera che anticipa gli stilemi del melodramma post-gluckiano in stile napoleonico. Ed è per questo che la sua bacchetta è equilibrata e attenta nel cercare il giusto dosaggio dei suoni in un crescendo musicale che conduce alla tragedia finale svincolandola da ogni eccesso esteriore, per regalarle un mirabile respiro anche negli inserti strumentali che prevedono l’utilizzo di strumenti concertanti.

Infine la messa in scena, affidata a Hugo de Ana, che puntò, più che in altri suoi spettacoli, all’essenziale significato simbolico di una vicenda sempre attuale anche se contestualizzata fuori dal mito. Per questo la scelta del regista argentino tralascia ogni riferimento all’antica Grecia a favore di una moderna ambientazione mediterranea, aspra e rocciosa come è la crudezza del soggetto. La gigantesca nave che domina la scena evoca il lungo navigare degli Argonauti per i mari sulla barca Argo, il loro peregrinare da una costa all’altra alla ricerca e conquista del vello d’oro in Colchide, poi portato a Corinto grazie a Giasone. Il regista, autore anche di scene e costumi che fanno pensare al Novecento fra le due guerre, aiuta a cogliere, con un gioco cinematografico di luci dai chiaroscuri caravaggeschi, la visione introspettiva poco eroica, né tanto meno vissuta sotto le atmosfere di una rivisitata classicità, bensì carica, come il cielo plumbeo che circonda il tutto, di quella salmastra dimensione di palude dell’inconscio che dona allo spettacolo un tratto distintivo simil dramma borghese efficace anche se inizialmente spiazzante.
L’intento è chiaramente quello di psicanalizzare le pieghe tragiche del mito di Medea, attualizzando e interiorizzando il tormento vendicativo in oppressione depressiva. All’apertura della scena appare la vista di una argentata distesa marina aperta dinanzi al litorale sabbioso subito animato dalle ancelle di Glauce in abiti Anni Venti che giocano sulla spiaggia, mentre la processione che reca in trionfo il vello d’oro viene tramutata in una tavolata nuziale paesana che non sfigurerebbe in una novella di Verga o in una pellicola cinematografica di Visconti.
Dalla gigantesca nave incagliata nella sabbia, che alla fine si incendia fra fuochi e scintille, vengono scaricati bauli e valigie che via via si moltiplicano fino a far da contorno, nell’ultimo atto, alla grande scena di Medea, come a voler porre l’accento sull’ossessione della donna scacciata e abbandonata a se stessa, pronta ad affrontare le fatiche dell’eterno viaggio del suo destino di esule in preda ad una sindrome depressiva. Ed è la stessa depressione, secondo il pensiero di de Ana, che spinge la protagonista al più inspiegabile e raccapricciante dei delitti: il sacrificio dei figli perpetrato per vendetta contro l’infedele Giasone. Uno spettacolo da vedere.

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