È lo spettacolo che il regista inglese Graham Vick, recentemente scomparso, avrebbe realizzato per inaugurare il XXI Festival Verdi di Parma e che è stato portato in scena da Jacopo Spirei lo scorso 24 settembre al Teatro Regio di Parma. È Un ballo in maschera (Gustavo III) di Giuseppe Verdi, diretto per la prima volta da Roberto Abbado – Direttore musicale del Festival dal 2018 e per l’occasione alla guida della Filarmonica Arturo Toscanini – che Rai Cultura propone in prima visione giovedì 14 ottobre alle 21.15 su Rai5. L’opera è nell’edizione con il libretto ad ambientazione svedese, così come concepito da Verdi per il debutto a Roma, prima che i censori pontifici imponessero la trasposizione della vicenda nella Boston coloniale. Qui riproponiamo la recensione di Fabio Larovere
“Un gioco del destino, uno scherzo, una follia”. Così Jacopo Spirei, nelle scarne note di regia, racconta lo spettacolo che inaugura il Festival Verdi 2021, uno speciale allestimento de Un ballo in maschera. Speciale perché, come tutti gli appassionati sanno, si tratta dell’ultima regia immaginata da Grahm Vick, prematuramente scomparso lo scorso 17 luglio. “È uno spettacolo di Vick? No. È uno spettacolo di Spirei? Nemmeno”. È sempre lo storico assistente del grande regista inglese a parlare. In effetti quelle domande sono risuonate nella testa e nel cuore di chi ha assistito alla recita, come chi scrive, che era in teatro per l’antegenerale riservata agli under 30. In effetti non c’è una risposta a queste domande.
L’impatto, appena si entra in teatro, è potente. Un grande spazio semicircolare chiude la scena, dominata da un imponente sepolcro nero sul quale si erge un angelo della morte. Sulle note del preludio, un funerale: quello del protagonista, al quale partecipano con mesta dignità Amelia, il marito e il piccolo figlio. Intorno, un gruppo di mimi/ danzatori dalla prorompente fisicità, un’umanità diversa, alternativa, inquieta, fatta anche di uomini barbuti vestiti da donna e di donne abbigliate da maschio. Tutti in eleganti e sobri abiti vittoriani. Quel sepolcro – con funzioni diverse di scena in scena – resterà sempre come un incombente monito sullo svolgersi di una vicenda della quale sin dall’inizio sappiamo l’esito drammatico e che si configura come una sorta di flashback. E così Vick/Spirei sembrano voler sovvertire la celebre lettura di Massimo Mila, che vedeva nel Ballo in maschera l’opera dell’amore per eccellenza di Verdi (più di Traviata, del resto così densa di implicazioni sociali). Tanatos – non Eros – è il polo intorno al quale ruotano i personaggi, anche i mimi con le loro movenze nervose, sovente scomposte, con il loro desiderio di accoppiarsi forse solo per esorcizzare l’ombra della fine. E allora la musica stessa di questo capolavoro pare tingersi di una patina scura, come il sipario che talvolta occupa la scena, nero sudario su un amore impossibile, su un’amicizia tradita, su una politica spregiudicata.
Il tema della diversità, così caro a Vick, torna anche qui e sembra promettere inediti sviluppi. Che tuttavia non ci saranno, se non forse nel pur importante personaggio di Oscar, che nella burla a Ulrica si presenta vestito da donna. Ed ecco che l’impressione che alla fine si ricava dallo spettacolo è quella di una idea iniziale forte, intelligentemente provocatoria, che poi però un po’ si perde per strada. Ci sono momenti dove la tensione narrativa si allenta, i movimenti dei protagonisti si fanno più convenzionali (la scena dell’orrido campo, la scena prima del terzo atto), mentre molto efficaci sono la scena dell’antro di Ulrica, che è la beffarda tenutaria di un bordello, e quella finale del ballo. Comunque, uno spettacolo che emoziona e interroga. In questo, perfettamente nello stile di un grande uomo di teatro come Graham Vick. Concorrono al risultato le belle scene e i costumi di Richard Hudson, le luci di Giuseppe Di Iorio, i movimenti coreografici di Virginia Spallarossa.
L’edizione eseguita a Parma è, come spiega il direttore Roberto Abbado, “frutto di un’operazione filologicamente sorvegliata, di inserimento del testo integrale del primo libretto presentato dal compositore a Roma sulla partitura di Ballo in maschera, nell’edizione critica a cura di Ilaria Narici”. Si torna così alla versione che vede protagonista il sovrano di Svezia Gustavo III, prima che la censura pontificia imponesse una serie di cambiamenti che, tuttavia, riguardano il solo libretto. Quest’ultimo – notoriamente oggetto di forti critiche da parte degli studiosi – ci è parso ancor più debole rispetto alla versione definitiva, forse perché questa la conosciamo a memoria.
Anche la direzione di Abbado si è adeguata alla cupa visione registica, sortendo l’effetto di narrare un fosco romanzo notturno, ove l’amore è disperatamente impossibile. Questa prospettiva di fondo, velata di un austero pudore, tuttavia non pregiudica ma anzi ha il merito di evidenziare ancora di più, in virtù del forte contrasto, la dimensione più leggera di una partitura che realizza un miracoloso equilibrio tra tragedia e commedia. Un teatralissimo conflagrare di atmosfere contrastanti che prende vita nella precisa definizione dello strumentale, nella scelta di tempi sempre appropriati alle diverse situazioni, nel governo sapiente di un flusso narrativo che respira col canto e si addensa in una compattezza sonora smagliante e nitida.
Piero Pretti affronta con grande impegno la parte tenorile forse più bella, aristocratica e chiaroscurata uscita dalla penna di Verdi. Ed è un Gustavo ironico e appassionato nei primi due atti, disperatamente rassegnato nell’ultimo: il timbro è schiettamente tenorile, la dizione precisa, il fraseggio curato. Anna Pirozzi domina l’impervio ruolo di Amelia con un legato ammirevole e con una bella compattezza timbrica nei centri, esibendo impalpabili pianissimi in acuto e fraseggiando sempre con intensa espressività. La voce robusta eppure morbida ed estesa di Amartuvshin Enkhbat è posta al servizio di una personalità interpretativa non sconvolgente ma comunque notevole, associata a un pregevole controllo della linea di canto. Giuliana Gianfaldoni è un Oscar di lusso, che non corre mai il rischio di scivolare nella petulanza, mentre Anna Maria Chiuri costruisce sull’intelligenza del fraseggio il ritratto di una Ulrica da ricordare. Non pienamente soddisfacente, per contro, la prestazione dei congiurati che in questa versione hanno i nomi di Ribbing e Dehorn, rispettivamente Fabrizio Beggi e Carlo Cigni, così come il Ministro di Giustizia di Cristiano Olivieri. Apprezzabili le prestazioni di Fabio Previati, Cristiano, e Federico Veltri, un servo del Conte.
Molto bene ha fatto il coro, che si affacciava da una lunga finestra ritagliata nella parte alta della scena, istruito dall’ottimo Martino Faggiani.
Photo: Roberto Ricci