La programmazione operistica di Rai5 dedicata alle produzioni del Teatro Massimo di Palermo continua giovedì 4 marzo alle 10 con A Midsummer Night’s Dream di Benjamin Britten, nell’allestimento firmato da Paul Curran con la direzione musicale di Daniel Cohen. Ispirato a uno dei testi più celebri di Shakespeare, il “Sogno” di Britten è un capolavoro di fantasia musicale e letteraria che arriva dal sodalizio tra il compositore e il suo compagno Peter Pears, cantante e coautore del libretto. Regia tv di Arnalda Canali. Riproponiamo qui la recensione di Giuseppe Montemagno.
Quel che resta d’Atene. E poco importa che sia nella martoriata capitale greca: meglio altrove, in un qualsiasi museo open air dove bastano tre colonne di un tempio dorico per ricostruire l’antichità, inaugurare un monumento, predisporre l’ennesimo, attesissimo taglio del nastro. Intorno al cerimoniere di turno s’affollano così un politico e la first lady di turno, poi una coppia di vip seguita da un lui tampinato da una lei, e ancora il personale della security, chi impegnato nelle ultime pulizie, chi in un selfie sullo sfondo dei ruderi, chi in un’emergenza fisiologica da espletare furtivamente dietro una colonna. Sogno o realtà? È al calar delle tenebre che Paul Curran, talentuoso regista scozzese dall’humour tipicamente british, ambienta il Midsummer Night’s Dream di Benjamin Britten, in prima esecuzione siciliana sul palcoscenico del Teatro Massimo di Palermo, a pochi giri di lancette dall’inizio dell’autunno. Il sorgere della luna – grande, immensa, onirica e spropositata – viene accompagnato sulla scena dalla presenza di quel pomo della discordia che è il «lovely boy», il paggio che la regina Tytania, novella Brünnhilde, ha sottratto a un re dell’India dopo il parto prematuro di una fata, e che anche Oberon desidera al suo seguito. Basta il candore di un fanciullo, circonfuso da un volo di farfalle, per schiudere tutto un mondo, l’intera poetica del teatro musicale di Britten: l’innocenza perseguitata, l’inestinguibile ricerca della bellezza.
Dal cretto di queste rovine, da una classicità che è simbolo di perfezione e d’incorrotta armonia si sviluppa uno spettacolo di limpida, poetica leggibilità, quale quello impaginato da Curran a Valencia lo scorso anno e adesso ripreso nel capoluogo siciliano da Allex Aguilera Cabrera. Perché se da un lato lovers e rustics vivono in una contemporaneità pericolosamente in bilico, sempre ai confini tra realtà e sogno, dall’altro divinità e fairies, sovrastati dagli stratosferici costumi di Gabriella Ingram, diventano mirabolanti fantasie da cartoon, gli abiti illuminati dall’interno da un tripudio di minuscole luci che ne fanno barbagli di nuvole, cotonose e cotonate creature della notte. Ne scaturisce un Sogno che vive e vibra di immagini, ma soprattutto di una direzione degli attori che con pochi, ma efficaci tratti stilizza cammei, personaggi, emozioni. Curran intrappola lo spettatore nell’azione e, complice la mercuriale levità di Puck, lo precipita tra le beghe familiari del mondo degli Elfi, nell’intreccio dei giuramenti d’amore di due coppie sull’orlo della crisi, nel backstage di un «very tragical mirth», di una molto tragica farsa da rappresentarsi quando – nel fausto giorno delle nozze di Theseus, duca di Atene – i fuochi d’artificio fanno brillare di mille luci una notte lunga come un sogno. Nel magico incanto del crepuscolo, le innumerevoli coppie che litigano e si separano, si cercano e infine si ritrovano (Oberon e Tytania come Theseus e Hippolyta, Hermia e Lysander come Helena e Demetrius, e in fin dei conti anche Pyramus e Thisby) raccontano tutte, con una sottigliezza e un acume tutti shakespeariani, un’unica storia: quella dell’insorgere del desiderio, che fa da sfondo all’amore. Curran invita a perdersi in questo labirinto, finché tre giri del tempio greco, prima del fastoso e festoso explicit, miracolosamente concorrono a rimettere a posto futuri sposi e passioni inespresse: o forse no, perché – Mozart docet – così fan tutte e tutti e bisogna limitarsi a prenderne atto con un sorriso.
Di questo carillon di cuori è prodigioso e sensibile motore la bacchetta di Daniel Cohen, che riesce a sormontare anche il problema principale della resa sonora del Midsummer Night’s Dream, tenuto a battesimo ad Aldeburgh nell’intimità di una sala di 316 posti e qui rappresentato in un teatro più grande di almeno quattro volte. Sin dalle prime battute, tuttavia, il direttore israeliano focalizza l’attenzione su quel gioco di sonorità, sulla straordinaria alchimia di impasti timbrici che costituisce il tessuto connettivo della partitura di Britten: autentico sortilegio di marca raveliana che instaura sin dalle prime battute, a cominciare dallo sfondo sonoro di glissando, a un tempo inquieto e inquietante, che si stempera nell’ingresso trionfale di fate ed elfi. Lo asseconda, mobilissima, una compagine orchestrale in stato di grazia, dalla grande aria di stampo barocco di Oberon, «I know a bank where the wild thyme blows» alla parodistica danza che intreccia Bottom, dalle sembianze d’asino, con le fate; fino all’intero terzo atto, scatola sonora di miniature cesellate con inarrivabile ricerca del dettaglio.
A Midsummer Night’s Dream è opera dell’acuto, del sovracuto, della ricerca di un altrove sonoro che dalla fossa orchestrale s’estende, dilaga sulla scena. Il risultato d’insieme è il frutto di singole prove, ora più importanti, ora ridotte o minime, ma che tutte concorrono a definire l’esito dello spettacolo. Sicché per una volta sembra il caso di cominciare dagli ultimi, da quel Coro di voci bianche, diretto da Salvatore Punturo e capeggiato dalle quattro fate di Emanuela Ciminna (Cobweb), Federica Quattrocchi (Peaseblossom), Giulia Nicoletti (Mustardseed) e Clarissa Di Lorenzo (Moth), responsabili dell’atmosfera onirica, perlacea, soffusa che accompagna l’azione. Abitano la dimensione oltremondana anche l’Oberon del controtenore Lawrence Zazzo, inevitabilmente in debito d’intensità sonora, in una sala tanto grande, ma che è modello di stile, impeccabile erede del languido, impalpabile fascino che era stato di Alfred Deller e James Bowman, indimenticabili in questo ruolo; e la stratosferica Tytania di Jennifer O’Loughlin, voce preziosa e intrisa di colori e umori silvani, soprano di coloratura perfettamente calata nelle trame pirotecniche di una regina irrequieta e capricciosa. Ma semplicemente strepitoso è l’incisivo Puck di Chris Agius Darmanin, acrobatico e disinvolto, ma soprattutto in grado di cimentarsi con l’improba scrittura del ruolo – interamente recitata, e per questo difficile da affrontare in un contesto in cui tutti gli altri personaggi invece cantano.
Intorno al tempio, sospiri d’umanità animano i quattro innamorati, tenero, burlesco clone del più celebre quartetto di amanti mozartiani. Qui rispondono a quattro interpretazioni di rango: il Lysander penetrante e appassionato di Mark Milhofer, pronto ad apparentarsi alla sensazionale Hermia di Gabriella Sborgi (raro, encomiabile esempio di cantante italiana che si cimenta con il repertorio straniero), traboccante di personalità e di fragilità; e il sonoro, giovanile, baldanzoso Demetrius di Şzymon Komasa, cui fa da contraltare la luminosa, combattiva Helena di Leah Partridge. La coppia regale, infine, è degnamente declinata dall’autorevole, imponente Theseus di Michael Sumuel, che si accompagna all’Hippolyta di Leah-Marian Jones, cantante-attrice di stupefacenti potenzialità, tanto da imporsi ormai come la nuova Felicity Palmer delle scene liriche britanniche.
E poi ci sono loro, i rustics: punto di contatto tra due mondi, il sogno e la realtà, ma fors’anche la scena e la sala. E qui occorre elevare un inno di ringraziamento a un Paese, come il Regno Unito, che ha saputo mantenere una scuola – non solo di canto, ma anche, o soprattutto di recitazione – capace di sfornare talenti cui forse non arride celebrità internazionale, ma che si disimpegnano nei rispettivi ruoli con una naturalezza, una vivacità istrionica e una sicurezza semplicemente inarrivabili. Forse non diranno molto, ai nostri lettori, i nomi di Zachary Altman (Bottom) e Jonathan Lemalu (Quince), Keith Jameson (Flute) e Sion Goronwy (Snug), William Ferguson (Snout) e Michael Borth (Starveling). Basti qui dire, tuttavia, che il primo diventa il vero protagonista dell’azione, asino amante appassionato e attore esilarante e imbranato; che Jameson è un tenore caratterista, come raramente capita di incontrare in scena; e che tutti insieme incarnano una joie de vivre e un senso di libertà, che solo di notte forse è possibile ritrovare. Per questo, finito il Dream, ci si allontana dal teatro – dove lo spettacolo ha ricevuto lunghissimi, meritati consensi – ancora sotto l’influsso delle ombre, delle visioni della notte; con il desiderio che il sogno continui, o con il sogno che il desiderio continui…
Photo credit: Rosellina Garbo