Rai5 ripropone Il trovatore areniano di Zeffirelli con Netrebko, Eyvazov e Salsi

Anna Netrebko e Yusif Eyazov sono i protagonisti del Trovatore di Giuseppe Verdi andato in scena nell’estate del 2019 all’Arena di Verona, che Rai Cultura propone martedì 30 marzo alle 10.00 su Rai5 (canale 23). Accanto a loro, impegnati nei panni di Manrico e Leonora, Luca Salsi come Conte di Luna e Dolora Zaijck nel ruolo di Azucena. Completano il cast Riccardo Fassi, Elisabetta Zizzo, Carlo Bosi, Dario Giorgelè e Antonello Ceron. La direzione musicale è affidata a Pier Giorgio Morandi, mentre la regia è quella ormai storica di Franco Zeffirelli. Riproponiamo qui la recensione di Roberto Mori

Non capitano di frequente, ma ci sono esperienze musicali nella vita di un ascoltatore destinate a imprimersi indelebilmente nella memoria. Una di queste l’ha regalata Anna Netrebko al pubblico dell’Arena di Verona che, nel quarto atto del Trovatore, l’ha ascoltata cesellare in modo stupefacente “D’amor sull’ali rosee”, forse l’aria più bella scritta da Verdi per soprano.
Esito tutt’altro che scontato, se consideriamo che nel repertorio italiano la diva russa si sta orientando sempre più verso Puccini e il Verismo e ha quasi del tutto abbandonato i ruoli di estrazione belcantistica. Eppure, in una pagina che di belcanto è intrisa, la voce scura e voluminosa della Netrebko sa ancora incantare. C’è tutto in questa sua esecuzione areniana: tenuta dei fiati, filati a ogni altezza, trilli, accento toccante, abbandono espressivo, capacità di restituire le tinte aeree e sfumate di un romanticismo lunare. Un’interpretazione emozionante, accolta da un boato di applausi quale non si sentiva da anni in Arena.
Al di là di questo momento magico, tutta l’interpretazione dell’ultimo atto risulta superlativa, come del resto è eccellente la resa in quelli precedenti. È vero che si nota qua e là la tendenza a gonfiare i suoni nel registro grave: espediente di cui la Netrebko non avrebbe affatto bisogno (considerato che la voce è timbratissima e sfarzosa in tutta la sua estensione), e che nel tempo potrebbe ripercuotersi sulla compattezza e solidità del settore acuto. Resta il fatto che la sua Leonora ha ancora tutte le carte in regola per quanto riguarda le agilità, la duttilità dell’emissione, la varietà espressiva, la linea di canto sfumata e nobile.
Nel cast di questo Trovatore veronese si fa apprezzare, al di là del timbro discutibile, anche Yusif Eyvazov. E qui bisogna davvero saper distinguere: un conto è la qualità del timbro, che può anche non piacere – soprattutto al centro – un conto quella del cantante, che è invece di tutto rispetto. Il tenore azero canta correttamente, ha una dizione chiara, una linea di canto accurata e un fraseggio approfondito. Gli acuti sono facili e per lo più squillanti, anche se non si capisce perché nella cabaletta della Pira piazzi il do dell’oteco pure nella prima strofa, oltre che nel “da capo”. Il risultato è che il terzo do, quello dell’All’armi, è meno squillante dei precedenti e anche un po’ calante. A ogni modo, al di là di questa scelta eccentrica, e di qualche occasionale sfasatura con l’orchestra, siamo di fronte a un buon Manrico.
Non convincono gli altri due interpreti principali. La gloriosa Dolora Zajick canta la parte di Azucena con una voce ormai divisa in tre tronconi: un centro dai suoni fievoli, un registro basso pompato e aperto, mentre in quello acuto si sente ogni tanto qualche sprazzo dell’antica grandezza. Con queste premesse, parlare di interpretazione e fraseggio è impossibile. Luca Salsi, che pure avrebbe il materiale di base per essere un grande baritono verdiano, è un Conte di Luna carente di nobiltà e di gusto sostanzialmente verista, nemmeno sempre preciso nell’intonazione.
Ineccepibile invece il giovane Riccardo Fassi, che delinea un Ferrando di bel timbro, controllato sia nell’emissione che nello stile, puntuale nelle agilità richieste dal racconto iniziale. Tra i comprimari si distingue l’impeccabile Ruiz di Carlo Bosi; funzionali le presenze di Elisabetta Zizzo, Ines, Dario Giorgelè, un vecchio zingaro, e Antonello Ceron, un messo.

La direzione di Pier Giorgio Morandi è concepita per lo più in funzione dei cantanti a disposizione. Il rapporto voci-strumenti è quindi regolato con attenzione a onta di qualche occasionale sbavatura, sicuramente rimediabile nel corso delle repliche. Non si colgono insomma particolari approfondimenti o intuizioni interpretative, ma il ritmo narrativo è più che soddisfacente e, soprattutto, si ascolta una volta tanto un’esecuzione integrale, con tutti i “da capo” previsti in partitura. Tanto più che vengono riprese le danze composte da Verdi per la versione francese del 1857, e sarebbe un controsenso (come avvenuto in altre edizioni) recuperare pagine desuete per poi amputare quelle più note.

L’allestimento è quello ideato da Franco Zeffirelli nel 2001. Questo sì, a differenza della Traviata inaugurale, un vero capolavoro. Uno spettacolo memorabile anzitutto sotto il profilo scenografico. Il palcoscenico è incorniciato, a destra e a sinistra, da due colossali gruppi scultorei di duellanti, mentre al centro spiccano tre grandi torri realizzate con cumuli di armi ammassate, che via via si trasformano in luoghi diversi. Le luci, proiettate su una distesa desolata di rocce e sulle gradinate, sono fondamentali in questa messinscena. Tutto è infatti giocato sul contrasto di colori: il rosso, che simboleggia la forza del sangue e della guerra, ovvero la fiamma dell’odio e della passione che brucia l’animo dei protagonisti, si oppone ai toni blu-azzurri dell’armonia e dell’amore puro e incorruttibile, destinati puntualmente a soccombere. Il trovatore, d’altra parte, è questo: scontro di sentimenti assoluti, assenza di psicologia, ossessione delle armi e della guerra.
Inutile dire che Zeffirelli non lesina sulla spettacolarità. Il secondo atto, per esempio, inizia con la costruzione in progress dell’accampamento degli zingari e si conclude in un crescendo vertiginoso. Vediamo processioni interminabili di monache, incappucciati, ceri e altari in movimento, quindi l’arrivo di Manrico a cavallo e, soprattutto, si assiste a un colpo di teatro indimenticabile: l’imponente e tetra torre centrale si apre trasformandosi in una gigantesca cappella gotica inondata da un fiume di luce d’oro. A rendere ancor più rutilante la rappresentazione contribuiscono i costumi coloratissimi di Raimonda Gaetani e il ripescaggio delle danze sopracitate: un’occasione per esibire le coreografie gitane di El Camborio riprese da Lucia Real.
Al termine, grande successo per tutti, ovazioni e standing ovation per Anna Netrebko [Rating:4/5]

Photo credit: Ennevi