È tutto dedicato a Verdi il primo recital inciso per la Warner dal tenore genovese Francesco Meli, che il 7 dicembre prossimo inaugurerà con il Macbeth verdiano la stagione scaligera, vestendo i panni di Macduff. Forse, il titolo dato all’album, Prima Verdi, gioca un po’ con il prossimo importante appuntamento, a cui Meli non è nuovo; forse, vuole sottolineare una predilezione che l’interprete si arroga per l’Autore, definito “il mio Verdi” nelle note autografe che aprono il booklet. Certo è che dedicare un album al registro tenorile in Verdi e ordinarne le arie in ordine cronologico, non può che apparire quasi, e sia chiaro, lo diciamo in tono melodrammatico, una sorta di sfida a quell’incisione storica che costituisce per questo repertorio una pietra di paragone assoluta, comunque se ne vogliano considerare gli esiti: mi riferisco alla raccolta “31 arie di Verdi” incisa nel 1974, sotto la direzione di Nello Santi, da Carlo Bergonzi, “il tenore verdiano” per eccellenza.
Ribadiamolo: non questo è l’intento di Meli, che giustamente insiste sull’aggettivo possessivo. È il “suo” Verdi quello che ascoltiamo in questa raccolta, che si apre con la celeberrima “La mia letizia infondere” da I Lombardi alla prima crociata e dove subito balzano evidenti similitudini e differenze con il precedente illustre. Innanzitutto, la nobiltà del fraseggio, che ha un respiro naturale tanto nell’emissione, morbida, che negli esiti. Questa naturalezza, composta, padroneggiata sin nella resa del minimo dettaglio, è frutto di una grande intelligenza: traspare più che lo studio, che immaginiamo appassionato e intenso, la capacità di porsi in ascolto della pagina verdiana, la propensione a intus legere, ad andare a scavare a fondo dentro ogni singola nota, ogni segno agogico e dinamico. Tratto in comune con la prova di Bergonzi, se non che sembra Meli esigere anche di più, coadiuvato dall’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino in forma smagliante sotto la preziosa e precisa direzione del maestro Marco Armiliato: si ascolti, ad esempio, la successiva “Notte! Perpetua notte” da I due Foscari. La ricchezza di colori e di sfumature che Meli trova ha una varietà sorprendente, che si amplierà ancor di più nel recitativo che precede “La pia materna mano” dalla Battaglia di Legnano. L’effetto drammatico della scena è ottenuto con un contrasto di chiaro-scuri che segue la grande linea pensata da Verdi, dipanantesi dal cupo e dolente preludio del violoncello sino al climax corrispondete allo scoppio del delirio del protagonista il quale riconosce, nella sua visione, il Carmagnola; è un continuo e progressivo trasmutare di affetti che precipita l’ascoltatore nell’inquieta supplica conclusiva, un crescente alternarsi di forti e piani, scoppi d’angoscioso terrore e frasi quasi sussurrate che si caricano di muto sgomento. Meli dimostra un grande controllo nell’esecuzione, una concentrazione profonda. Il rischio è che tanta analisi, tanta dovizia di particolari, tolgano un po’ di spontaneità al personaggio, di teatralità. Il fatto di trovarsi all’ascolto di un’incisione giustifica tuttavia la scelta interpretativa e anzi offre un’esperienza piena e originale che giustifica quel “mio Verdi” che suona, a questo punto, programmatico.
Il recital prosegue con un’interpretazione pregna di profondo dolore di “O figli… Ah la paterna mano” dal quarto atto di Macbeth, a cui il canto morbido di Francesco Meli dona una nobiltà tanto più grande quanta è la tenerezza del fraseggio e la compostezza dell’emissione, tale da far presagire belle emozioni per il prossimo Sant’Ambrogio. Il viaggio nella vocalità verdiana prosegue con La battaglia di Legnano, l’immancabile “Oh fede negar potessi” dalla Luisa Miller, che vive di continui contrasti e opposti stati d’animo, per giungere all’unico brano della trilogia popolare qui eseguito: “Ah sì, ben mio”, dal Trovatore.
C’è da chiedersi, giunti a metà dell’ascolto, se Francesco Meli sia tenore verdiano. Domanda complessa a cui non si ha qui la pretesa di rispondere: diciamo piuttosto che certamente è interprete verdiano, perché del Nostro sa cogliere la passione per il dettaglio della parola scenica, e la cura della scrittura musicale, in un caso, e dell’esecuzione nell’altro. Se la voce sia voce verdiana, qui poco importa. Certo manca a tratti di squillo e si nota, in alcuni passaggi e in alcuni acuti, un vibrato piuttosto ampio che fa capolino. Detto ciò, come negare alle interpretazioni ed esecuzioni delle arie di Simon Boccanegra, Un ballo in maschera, La forza del destino (magnifico per la dolcezza del suono e il colore soffuso infuso alla voce, l’attacco di “O tu, che in seno agli angeli”) la grandezza di un ritratto compiuto dell’animo umano, quale Verdi voleva? Il problema di tanta cura emerge, a proposito di contrasti, proprio in “Celeste Aida” dove Meli, dopo avere attinto alla sua varia tavolozza dinamica, forte di un’emissione morbida come poche volte in tempi recenti è stato dato sentire, ci fa ben sperare in un Si bemolle in ppp, che di fatto manca: peccato, ma la delusione scaturisce dall’averci sin qui viziati. Chiude l’album il grande monologo “Dio, mi potevi scagliar” dall’Otello, opera dell’estrema maturità verdiana. La pagina indubbiamente più prossima al lirismo di Meli, che pare dare comunque il meglio di sé in questi momenti raccolti, in un profondo dolore che ha come contrappunto, nella scrittura musicale, un’esplosione di rapida follia (o come avviene nel caso del Simon Boccanegra, il contrario): questi contrasti, che appassionavano Verdi, sembrano accendere la fantasia dell’interprete.
L’orchestra è eccellente nell’assecondare la lettura di Meli, a cui la bacchetta di Marco Armiliato indica sicura la via. La comunione di intenti fra i due musicisti e fra essi e la compagine orchestrale si nota, per citare solo un esempio, nell’accompagnamento di “Sento avvampar nell’anima” dove più che nel moto delle sestine, l’accento è posto sulle acciaccature degli accordi, effetto tanto caro al Verdi della raggiunta maturità artistica, così da infondere maggior drammaticità alla pagina, risuonando cupo sotto l’agitato disegno degli archi, qui più ammorbidito.
Per chi se lo chiedesse: uguaglia, questa edizione, l’album di Carlo Bergonzi sopra ricordato? Non è cosa che importi, perché questo è Verdi, il Verdi di Francesco Meli, e certamente quello che per tecnica ed esiti più sembra degno oggi di stargli accanto.
PRIMA VERDI
Francesco Meli, tenore
Marco Armiliato, direttore d’orchestra
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Etichetta: Warner Classics
Formato: CD
Registrato al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
dal 3 al 6 giugno 2020