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Pesaro, Rossini Opera Festival 2021 – Moïse et Pharaon

Moïse et Pharaon o la sfida del tragico. Musicografo attento alla vita musicale parigina della Restaurazione, Ludovic Vitet ebbe bisogno di una piccola settimana dalla prima, occorsa il 26 marzo del 1827 all’Académie Royale de Musique di Parigi, per redigere la sua nota critica sulle colonne del «Globe»: il problema non era quello di verificare la tenuta di un cast stellare, che includeva alcuni artisti (Levasseur, Cinti, Nourrit) già adusi alle fioreture di scuola italiana, mentre altri (i coniugi Dabadie) rimanevano ancorati alla tradizione francese; ma di comprendere quanto il processo di acclimatamento delle opere italiane di Gioachino Rossini per le scene francesi potesse «ringiovanire questo vecchio e insulso rappresentante dell’ancien régime.» È dunque con gioia che il recensore non si limita ad annunciare il trionfo del nuovo spettacolo: il genere del grand opéra aveva cominciato la sua rivoluzione e, soprattutto, finalmente trovato «il suo Mirabeau.» Del resto, l’operazione era stata particolarmente propizia a Rossini stesso, che aveva avuto così l’occasione di rivedere una partitura composta nove anni prima: «In una parola, da un sublime schizzo giovanile ha fatto la più compiuta opera di un uomo maturo: felice privilegio della musica di poter così crescere con il suo autore! È come se un quadro giovanile di Raffaello fosse stato ritoccato dopo aver visto e studiato Michelangelo!».

Scelto come titolo inaugurale del 42° Rossini Opera Festival, l’oratorio rossiniano mancava dalle scene pesaresi dal 1997, quando era stato presentato in una memorabile produzione firmata da Graham Vick, che nel 2011 avrebbe messo in scena anche Mosè in Egitto: è stato dunque particolarmente significativo che l’intera edizione della rassegna sia stata dedicata al grande regista britannico, prematuramente scomparso nel luglio scorso, in concomitanza con la ripresa di un titolo a lui particolarmente caro. L’occasione è stata propizia per riannodare le fila di un ragionamento sul Rossini francese avviato sin dal 2017, con l’ultima produzione del Siège de Corinthe, e che è destinata a proseguire con un nuovo Comte Ory, titolo inaugurale della prossima edizione.

Quanto sopra può forse essere utile a spiegare l’esito – necessariamente contrastato – della ‘rivoluzione’ di Moïse et Pharaon, di uno spettacolo che conferma l’alto profilo della rassegna proprio perché interroga questi testi, da intendersi nell’accezione più ampia del termine, fornendone risposte non univoche. La chiave di volta è senz’altro costituita dalla direzione attenta, calibratissima, lungamente meditata di Giacomo Sagripanti, che parte proprio dalla definizione di ‘oratorio’, scelta in occasione della creazione parigina dell’opera nel corso della Settimana Santa: filiazione, certo, di quella napoletana come ‘azione tragico-sacra’, ma secondo una prospettiva ancora più ampia. Nelle mani del direttore abruzzese, alla guida dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI di straordinaria compattezza e fluidità, Moïse diventa un bassorilievo marmoreo punteggiato dai momenti ‘sublimi’ – per impiegare la terminologia impiegata da Ilaria Narici – in cui figura l’intervento del soprannaturale. Impagina dunque un imponente affresco – nel quale viene magistralmente supportato anche dal Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, preparato da Giovanni Farina – che puntualmente elude la componente teatrale, in favore di un visione ieratica, solenne, maestosa. Arie e duetti, dunque, vengono sacrificati sull’altare di concertati grandiosi, algidi nella loro soverchiante bellezza, in cui riecheggia l’eco della riforma gluckiana come del Mozart sacro: non è un caso se la narrazione musicale sembra prendere l’abbrivio con le grandi scene d’insieme, dalla Scena delle tenebre su cui si apre il II atto, per spiccare il volo e trovare definitiva compiutezza dal Finale III in poi, fino agli ultimi tre, celeberrimi numeri della partitura. La bacchetta illumina anche scorci inusitati: si pensi agli airs de danses del III atto ricavati da Armida, la grande fête in onore della dea Iside, in cui emergono trame strumentali di straordinaria finezza sulle quali – faute de mieux – si è costretti a concentrarsi, focalizzando un gioco di variazioni straordinariamente accattivante. Moïse s’impone, per questa via, non solo come l’anello di congiunzione tra la tradizione della perenta tragédie lyrique e l’incipiente grand opéra; ma anche tra la produzione oratoriale italiana e quella francese, sospesa in un’atmosfera di levigata, incorrotta perfezione.

Da qui scaturivano, probabilmente, alcune scelte di distribuzione. Con esemplare nobiltà di tratti, Roberto Tagliavini vestiva i panni del profeta con grande rigore, cura esemplare della linea di canto, ampiezza di una cavata al tempo stesso morbida, robusta, vigorosa: fino a una Prière di stupefacente dignità e vigore. Latitava forse l’autorevolezza che dal personaggio dovrebbe scaturire, ma era forse una scelta voluta: per questo non esitava a ‘rubargli’ la scena il più dinamico Pharaon di Erwin Schrott, presenza carismatica e voce torrenziale di impressionante proiezione, benché abbia spesso dato prova di eccessiva disinvoltura nel controllo del mezzo vocale. Graduale è anche l’adattamento alla vocalità di Andrew Owens, che tratteggia un Aménophis certo in crescendo ma con notevoli difficoltà nel canto di coloratura e nella tenuta d’assieme, anche a causa di un volume limitato. L’ultimo duetto con Anaï lo vede riguadagnare terreno, ma all’interno di una lettura anemica del personaggio – certo ben lontano dalle coloriture che doveva infondergli Adolphe Nourrit, primo interprete del ruolo. Più convincente e stilisticamente impeccabile è l’Éliézer di Alexey Tatarintsev, che progressivamente s’impone fino al significativo rilievo solistico nella Prière; ancora, Matteo Roma svetta come Auphide di sicuro slancio e Nicolò Donini è un austero, bellicoso Osiride, imponente anche come Voix mystérieuse.

Anche la componente femminile appare diversificata. Si ritaglia un vibrante trionfo personale la Sinaïde grandiosa di Vasilisa Berzhanskaya, che riceve un’autentica ovazione per il Finale II, l’Air con cori «Ah! d’une tendre mère»: possiede temperamento, un strumento vocale morbido e vellutato, una padronanza straordinaria dell’accento. Accorta fraseggiatrice, doppia con facilità gli scarti intervallari dell’aria, incanta con ipnotiche filature, attacca in pianissimo la ripresa del cantabile, prima di scatenarsi in una cabaletta rapinosa, «Qu’entends-je! ô douce ivresse», in cui sfodera un’encomiabile omogeneità lungo tutta la gamma e una strepitosa facilità nella coloratura. Ne fa un personaggio al tempo stesso trepido e battagliero, dalla tempra incandescente e appassionata. Suscita maggiori perplessità l’accorata Marie di Monica Bacelli, purtroppo ormai usurata; ma di esito assai contrastato è pure l’Anaï di Eleonora Buratto, che sulla carta avrebbe avuto tutte le carte per accostarsi al personaggio creato da Laure Cinti-Damoreau, il primo di una leggendaria galleria destinata a culminare in Guillaume Tell. La preziosità del timbro è innegabile, come la rotondità dell’emissione e perfino la cura che riserva alle agilità: ma sembra come sovrastata dal ruolo, soprattutto nell’impervia, difficilissima aria dell’ultimo atto, e assai affaticata: tanto da essere costretta a forzare nel registro acuto con l’emissione di suoni in cui prevale la fibra. Probabilmente, le scelte di repertorio eterogenee dell’ultimo periodo (segnatamente l’ultima Aida all’Arena di Verona) non le hanno consentito di affrontare con la dovuta serenità un repertorio che però le sarebbe particolarmente appropriato: ed è un vero peccato.

È stato, dunque, un Moïse di luci ed ombre: elementi essenziali anche della nuova produzione firmata da Pier Luigi Pizzi, che peraltro aveva già affrontato la versione napoletana anche a Pesaro nel lontano 1983. Se lo spettacolo convince solo in parte è, forse, colpa dell’eterogeneità degli elementi messi in campo dall’artista milanese. Lo scenografo gioca per sottrazione, si limita a creare una cornice in cui si staglia la presenza – spesso immobile – dei personaggi, mentre il coro viene bloccato nelle due parti laterali del palcoscenico. Aderisce, in questo, all’interpretazione oratoriale suggerita da Sagripanti, limitando al massimo i movimenti e raggelando l’azione in tableaux di superiore bellezza: bianco e nero, blu e oro sono le tinte che sceglie per una visione estetizzante dell’opera, privata di qualsivoglia nerbo drammatico. Solo nei finali d’atto decide di approfittare della passerella che circonda il palcoscenico per portare il dramma a contatto con il pubblico: ma è espediente che presto si rivela ripetitivo e che, soprattutto, appare privo di qualsiasi finalità drammaturgica. Con il concorso delle bellissime luci di Massimo Gasparon, risolve i momenti ‘sublimi’ con illustrazioni video, forse efficaci ma di realizzazione fin troppo elementare: si comprende bene che è un elemento affatto estraneo al lessico di Pizzi, utile per risolvere interventi divini altrimenti difficili da gestire, ma che difficilmente si integrano nella ricerca squisitamente figurativa del regista. Perfino la spettacolare traversata del Mar Rosso, nel finale, naufraga nel grigio di una distesa marina che si schiude ad accogliere gli Ebrei, pronti invece a scivolare giù dal palcoscenico. È insomma, un Moïse suggestivo perché didascalico, inoffensivo perché di segno scenico nitido, perfettamente, geometricamente simmetrico, immaginato per anime candide incantate di fronte a tanto prodigio di perfezione: il teatro è altro.

Lo confermano, se necessario, anche le coreografie di Gheorghe Iancu, francamente imbarazzanti nel corso del primo atto – durante la scena del battesimo in cui vengono consacrati a Dio i primogeniti – in cui per la prima volta compare la figura di un bambino, speranza e promessa del futuro, presente durante tutta l’opera. Più interessanti sono quelle del terzo atto, un pas de deux affidato alla coppia composta da Maria Celeste Losa e da uno statuario Gioacchino Starace, ballerini solisti del Teatro alla Scala. Anche in questo caso, tuttavia, colpisce il melting pot espressivo impiegato nel lungo divertissement, che va dal classico al sirtaki fino alla presenza di quattro dervisci rotanti in sgargianti abiti blu: predomina l’aspetto visivo, in un approccio coreografico smagliante, terso, trasparente, scevro da qualsiasi approccio interpretativo della vicenda. Che si snoda senza scossoni fino al finale ultimo, in cui Pizzi decide di giocare una carta – che sarebbe eccessivo definire asso nella manica: quando, al termine del Cantique, gli Ebrei che riguadagnano la scena perdono i connotati atemporali per vestire i panni delle vittime dell’olocausto. La riunificazione dopo la prova del Mar Rosso si concretizza nella figura del bambino, accolto da Moïse e tenuto per mano verso un orizzonte di luminoso ottimismo: profetica è la musica, catartico l’esodo verso il futuro, prossimo venturo. [Rating:3/5]

Vitrifrigo Arena – Rossini Opera Festival 2021
MOÏSE ET PHARAON
Opéra inquattro atti di Luigi Balochi ed Étienne de Jouy
Musica di Gioachino Rossini
Edizione Casa Ricordi

Moïse Roberto Tagliavini
Pharaon Erwin Schrott
Aménophis Andrew Owens
Éliézer Alexey Tatarintsev
Osiride – Voix mystérieuse Nicolò Donini
Aufide Matteo Roma
Sinaïde Vasilisa Berzhanskaya
Anaï Eleonora Buratto
Marie Monica Bacelli
Primi ballerini Maria Celeste Losa, Gioacchino Starace

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Direttore Giacomo Sagripanti
Maestro del coro Giovanni Farina
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Regista collaboratore e luci Massimo Gasparon
Coreografie Gheorghe Iancu
Nuova produzione

Pesaro, 6 agosto 2021