God save the Queen? La domanda sorge spontanea, assistendo alla nuova produzione di Elisabetta regina d’Inghilterra di Gioachino Rossini al Rossini Opera Festival di Pesaro: la seconda, nella storia della kermesse, dopo quella del 2004, in cui venne per la prima volta utilizzata la nuova edizione critica approntata da Vincenzo Borghetti. Programmato (casualmente?) in tempi di Brexit, il dramma per musica è stato infine recuperato quest’anno: appuntamento attesissimo per la caratura storica dell’opera, titolo di esordio del Pesarese a Napoli, il 4 ottobre del 1815, «giorno onomastico di Sua Altezza Reale il Principe ereditario delle Due Sicilie», come recitava il frontespizio del libretto del debutto; ma anche atto di battesimo di un settennato che avrebbe consacrato, al tempo stesso, la gloria imperitura di Rossini e le fortune di Domenico Barbaja, impresario dei Reali Teatri di Napoli. Di più: dietro la scelta del soggetto, di fonte francese e italiana, si celava il desiderio di un uso celebrativo del «Teatro del Re», che proprio nelle vicende della regina Tudor coniugava un tributo alle milizie britanniche, strategiche nella restaurazione dell’ancien régime, come alla clemenza del nuovo – e al tempo stesso vecchio – corso, di cui si esaltava programmaticamente la lungimiranza politica. È dunque opera epocale, in primis per Rossini, che con questo titolo trionfalmente inaugurava il suo settennato partenopeo, con un’opera di carattere altamente sperimentale, che andava dalla soppressione dei recitativi secchi al ripensamento della tecnica dell’autoimprestito (un solo numero della partitura non ne contiene, il Duetto Leicester-Norfolc del secondo atto), funzionale al contesto «morale» del dramma; fino alla scrittura ‘su misura’ per una compagnia «di cartello» che, impreziosita dalle presenze di Andrea Nozzari e Manuel García, era capeggiata da Isabella Colbran, che del musicista sarebbe stata compagna e musa ispiratrice. Non è un caso se, nella sua celeberrima biografia, Stendhal si definirà «Rossiniste de 1815», alla maniera dei poilus che avevano fatto la Rivoluzione del 1789 e poi le guerre napoleoniche: come i Napoletani, «ebbri di felicità», diventa convinto assertore del ruolo di spartiacque epocale di Elisabetta regina d’Inghilterra, che considerava come il punto di partenza di una rivoluzione copernicana; e al tempo stesso rimane affascinato dall’«istinto tragico» della Colbran, la cui interpretazione della regina inglese gli avrebbe ispirato pagine memorabili, l’ultima, a suo dire, prima del prematuro declino.
Elisabetta è dunque opera dagli equilibri delicatissimi: musicali, prima ancora che scenici. Lo spettacolo pesarese, sotto questo profilo, stenta a decollare per una concomitanza di fattori che ne fanno forse il titolo meno riuscito di questa edizione. Chi sente il peso di tanta responsabilità è Evelino Pidò, al suo debutto (chi l’avrebbe mai detto?) nella patria di Rossini. Governa con grande rigore l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, chiamata a rinverdire i fasti della più grande compagine strumentale primottocentesca, quella del Teatro di San Carlo di Napoli, alla quale Rossini chiese un impegno concertante costante nel valorizzare sentimenti, atmosfere, tutto un incalzare di situazioni contrastanti che dalla fossa si rispecchiano sulla scena: la fanfara che anticipa il ‘concertato di stupore’ «Qual colpo inaspettato» miracolosamente cristallizza l’azione in un grumo inestricabile di ambascia e indecisione, sinistro presentimento del «gelo della morte», prima di scatenare il vortice della stretta. Pidò imbocca la strada di un protoromanticismo cupo e inquieto, volto a sottolineare da una parte la potenza dei recitativi strumentali, dall’altra gli interventi del coro. La prima opzione avrebbe tuttavia richiesto un lavoro più accurato sul declamato, che emerge solo in alcuni splendidi frangenti (come il magistrale attacco del Finale I, «Che penso, desolata regina?…»), mentre la seconda lo porta a una ricerca di sonorità che sembrano in qualche modo anticipare le scene di prigione – e di follia – di analoghe pagine belliniane e donizettiane: il compianto del Coro «Qui soffermiamo il piè…», che apre la gran Scena di Norfolc, viene magistralmente reso dal Coro del Ventidio Basso, diretto da Giovanni Farina, con morbidezza di sfumature e senso di raccapriccio e di mistero. Manca forse, nella visione d’insieme dell’opera, una ricerca del passo drammatico, di una tenuta narrativa che, anche a causa dell’ampiezza dei recitativi, talora fa perdere di vista quella «maniera grande» che Rossini dischiude al genere serio.
Ma forse ancor più complessa era la situazione sulla scena, a partire dalla presenza di Karine Deshayes nel ruolo del titolo. Artista assai apprezzata in suolo francese, è cantante indubbiamente solidissima, provvista di un morbido timbro mezzosopranile, abile nello sgranare una coloratura che, senza essere folgorante, sorprende comunque per precisione e musicalità. Anche sotto il profilo scenico, incarna una regina dimidiata tra la fedeltà alla corona e il segreto amore per Leicester, il desiderio di vendetta e il ripensamento finale, che la porta al gesto di ricomposizione del perdono generale. È, tuttavia, in imbarazzo nella tessitura anfibia scritta per Isabella Colbran: perfettamente a suo agio nel registro centrale, appena sale in quello acuto s’irrigidisce in suoni stridenti, tesi, che peraltro non riesce neanche a piegare a fini espressivi con un’incisività di accenti d’impatto drammatico. Per questo la si apprezza nel cantabile finale «Bell’alme generose», ma si tratta veramente di pochi, felici istanti, all’interno di una prova minata da una scelta di base poco convincente.
L’impressione costante, peraltro, è che forse sarebbe stata più persuasiva nel ruolo della regina Salome Jicia, che adesso aggiunge il ruolo di Matilde alla sua tortuosa galleria rossiniana pesarese, dove è stata Folleville ed Elena, Dorliska e infine Semiramide: ruoli più combattivi e travagliati, infatti, meglio si attagliano al suo timbro frastagliato, a un fraseggio tagliente e veemente, a una coloratura di forza sempre affilata. Tutto ciò che non è, insomma, la remissiva Stuarda, vittima di un destino avverso che la vuole nata «a piangere, a penar.» Belcantista accorta, cesella la sua Aria «Sento un’interna voce», ma nel Duetto del secondo atto, che poi si amplia a Terzetto con l’arrivo di Leicester, le due donne sembrano smarrite più che sopraffatte dal peso di una fatalità ineluttabile: è il primo a due che Rossini dedica a due voci femminili, unite nel vincolo della com-passione del dolore, di un contrasto insanabile di opposte cure.
Anche la partecipazione dei due interpreti tenorili è problematica. Sergey Romanovsky è sicuramente il migliore in campo, anche se stenta a emergere nei panni di Leicester: deve infatti attendere la scena della prigione e il successivo Duetto con Norfolc per ritrovare lo slancio di un registro acuto svettante, di un canto forbito, di una coloratura che ben traduce il frangente tragico che precede il finale. Stilisticamente impeccabile è Barry Banks, tenore ben noto per i suoi contributi alle incisioni di una celeberrima etichetta londinese. Arriva tardi, tuttavia, al suo debutto pesarese, e benché sia forse tra i maggiori rossiniani di area britannica, soffre di una voce chioccia e di un virtuosismo francamente poco gradevole: ostenta sicurezza nella gran Scena del secondo atto, intonando la cabaletta sulla passerella, ma questo amplifica, se possibile, difetti e limiti di una prestazione da archiviare. Sorprende, infine, che non sia stato possibile trovare un Enrico meno ingolfato e opaco di Marta Pluda, e anche Valentino Buzza sembra costantemente a disagio nei panni di Guglielmo.
Al soglio inglese riporta con prepotenza il complesso, stratificato spettacolo di Davide Livermore. Il Konzept è la confusione tra le due regine Elisabetta: forte di una serie di successi cinematografici e televisivi, da The Queen a The Crown, sulla scena procede al consueto ‘trasloco’ spazio-temporale e fa rivivere non già la storia di Elisabetta I ma quella della regina in carica. In una reggia dalle pareti di vetro, che Giò Forma costruisce creando suggestivi effetti di profondità della scena, infuria non la guerra contro la Scozia bensì gli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale: il profilo di un maestoso cervo reale immerso tra le brume, citato dal film dedicato a Elisabetta II, figura sin dalla Sinfonia come monito di un ritorno alla natura che cozza con le immagini di guerra degli straordinari, rutilanti video di D-wok. Non esiste alcun desiderio di fedeltà storica, ma un costante tentativo di agganciare gli eventi narrati dal libretto a ciò che potrebbe esser successo in un microcosmo dorato osservato, spiato dal basso, nell’inarrestabile andirivieni di cameriere e maggiordomi che volteggiano da una ambiente all’altro. Così, la Cavatina di sortita di Elisabetta diventa un discorso radiofonico della regina, Norfolc un avatar subdolo e ambiguo di Winston Churchill, mentre Leicester atterra in una Londra devastata dalla guerra con una pattuglia della Royal Air Force. Immagini di vigoroso impatto, in una reggia dal mobilio terremotato, sullo sfondo di un orizzonte rosso e nero preda di fiamme, incendi, turbini, tempeste e trombe d’aria. Come sempre non mancano intuizioni intriganti: il Duetto Elisabetta-Norfolc diventa così una lunga telefonata tra i due, in cui il perfido consigliere finge esitazioni e incertezze per rivelare il matrimonio segreto di Leicester e Matilde. È, insomma, il trionfo delle controscene, perché nulla di quanto avviene nell’opera viene sottratto alla ridondanza di un commento visivo, di un continuo rimbalzo dalla dimensione squisitamente musicale a quella, prepotente e preponderante, dell’immagine.
Livermore è, come sempre, arbiter di un lavoro di rara perfezione: per questo si avvale di un team che trova in Gianluca Falaschi una presenza d’eccellenza, tanto sono preziosi i costumi – da quelli della corte, in zuccherose tinte pastello, a quelli della regina, dallo sfarzo dirompente. È, però, difficilissimo concentrarsi sull’aspetto musicale dello spettacolo, tanto si è irretiti dal ricorso a una medialità che non lascia tregua, in un gioco di citazioni e auto-citazioni ormai labirintico, vertiginoso, che avrebbe fatto impallidire Piranesi ed Escher sommati insieme: come nel caso dell’Aria di Matilde, intonata con l’ormai consueto ombrello nero che le viene consegnato da una servitù danzante, in cui Livermore cita se stesso (…A riveder le stelle, lo spettacolo inaugurale della Scala del 7 dicembre 2020) che a sua volta citava le coste scozzesi del Singing Butler di Jack Vettriano. Rimane l’impressione che il regista voglia raccontare una storia che solo in parte coincide con quella messa in musica da Rossini: e che poco o punto la illumini, rivelandone aspetti nascosti, sotterranei, emergenti. Solo il Finale sembra giocato nei toni di un’ironia travolgente, che forse non sarebbe dispiaciuta al Pesarese: quando si celebra la grandezza d’animo di Elisabetta e la regina, sugli ultimi accordi, indossa un sontuoso mantello e ascende al trono, mentre sullo sfondo sventola invitta la bandiera del Regno. Rule, Britannia!
Vitrifrigo Arena – Rossini Opera Festival 2021
ELISABETTA REGINA D’INGHILTERRA
Dramma per musica in due atti di Giovanni Schmidt
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini in collaborazione con Casa Ricordi,
a cura di Vincenzo Borghetti
Elisabetta Karine Deshayes
Leicester Sergey Romanovsky
Matilde Salome Jicia
Enrico Marta Pluda
Norfolc Barry Banks
Guglielmo Valentino Buzza
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Direttore Evelino Pidò
Maestro del coro Giovanni Farina
Regia Davide Livermore
Scene Giò Forma
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Nicolas Bovey
Videodesign D-wok
Nuova coproduzione con il Teatro Massimo di Palermo
Pesaro, 8 agosto 2021