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Palermo, Teatro Massimo – Lucia di Lammermoor

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«Viva il teatro!». I riflettori non fanno in tempo a illuminare il ciuffo mechato bianco di Roberto Abbado, mentre conquista il podio del Teatro Massimo di Palermo, che una voce esplode dal loggione, si libra in tutta la sala, manifesta in maniera tangibile l’entusiasmo del pubblico finalmente ritornato in presenza (seppure a ranghi ridotti, in ossequio alle norme di distanziamento) dopo oltre sei mesi di chiusura forzata. Eppure, il silenzio non è mai regnato nella sala del Basile: come testimoniato da uno dei Premi speciali dell’Abbiati 2021, conferito a Omer Meir Wellber, direttore musicale dell’ente lirico siciliano, «guida presente, piena di energia e soprattutto di idee musicali», «eclettico fantasista […] di cui non potremo più fare a meno», come recita la motivazione del prestigioso riconoscimento. È stata una serata di grande festa, quella in cui Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti, inizialmente prevista unicamente in streaming, è stata pure consegnata agli spettatori che hanno fatto registrare in poche ore il prevedibile “tutto esaurito”, rispolverando per l’occasione un tripudio di strascichi e robes longues, primaverili decorazioni a fiori e sgargianti abiti da sera, tutto il guardaroba delle prime tenuto chiuso negli armadi durante questo lungo, interminabile inverno. Assediato da innumerevoli paparazzi, presenti anche nel foyer d’ingresso, lo scalone monumentale è tornato a essere vetrina di un pubblico che considera il Massimo come fulcro della vita cittadina: il capolavoro donizettiano, cardine del Romanticismo in musica, non poteva essere scelta migliore per la serata di riapertura.

Come per l’Ernani che aveva arricchito la programmazione palermitana la scorsa primavera, anche in questo caso si è fatto ricorso a un allestimento d’archivio (quello firmato per le scene e i costumi da William Orlandi nel 2003, poi ripreso nel 2011 e nel 2016), ripreso in maniera da assicurare una mise en espace di sobria eleganza, nel rispetto delle misure di sicurezza imposte dalla normativa in vigore. Ludovico Rajata lascia libero campo all’azione, mentre le luci di Fiammetta Baldiserri esaltano la raffinatezza dei costumi di Orlandi: tutti nelle tinte del bianco e del nero, quasi a suggerire un’ambientazione opprimente che oppone al candore di Lucia la cupa, soffocante grettezza di una società che la sacrifica, la immola per mere motivazioni politiche. Nella penultima scena, infatti, solo l’abito da sposa della protagonista sarà bruttato di sangue, unica, tragica macchia di colore in un microcosmo monocromatico, spento, oscuro. Proiettate sui fondali che si succedono sul palcoscenico, le immagini scelte da Fabiola Nicoletti s’incaricano di restituire lo sfondo gotico della tragedia lirica. È, ancora una volta, una soluzione che permette di valorizzare i gioielli di famiglia, senza rinunciare ai movimenti scenici dei personaggi dell’opera (il coro sta infatti schierato sul fondo del palcoscenico): garantendo una perfetta leggibilità delle vicende evocate e assecondando le ragioni del canto. Forse, sarebbe stato opportuno tralasciare un po’ di attrezzeria d’antan – tra fiori di plastica, ingombranti pistole e finti diademi: ma anche questo è il caro, vecchio melodramma, che tutti eravamo ansiosi di ritrovare com’era e dov’era.

Decisamente più intriganti erano, tuttavia, le scelte musicali operate da Roberto Abbado, alla guida di compagini in stato di grazia. La partitura scorre fluida tra le sue mani, erompe come un mare in tempesta, un incontrollabile tsunami di emozioni che passano attraverso una pasta orchestrale morbidamente plasmata, impasti timbrici in cui emerge la grassa opulenza degli ottoni, la vibrante luminosità degli archi, i singoli contributi solistici: la liquidità dell’arpa di Francesca Luppino per la sortita di Lucia, l’ineguagliabile, ammaliante colore del clarinetto di Giovanni Punzi per illuminarne i passi stentati prima del sacrificio; fino al colpo d’ala rappresentato dalla fantasmatica glass harmonica di Sascha Reckert, che duetta con la protagonista in una scena della pazzia trasformata in un thriller ad alto potenziale espressivo. Abbado modella, sottolinea, guida per mano i cantanti, respira con loro: fino all’esplosione del maestoso groundswell, la grandiosa cadenza che suggella il concertato del Finale II, punto di non ritorno verso la catastrofe annunciata. Una menzione particolare merita il coro, come sempre preparato da Ciro Visco: capace di autentici virtuosismi, come nell’ultima parte dell’opera, quando alterna la pimpante allegria degli ultimi bagliori della festa nuziale, che si conclude tragicamente, al partecipe cordoglio con cui circonda Edgardo nell’ultimo quadro: raccogliendo, svaporando il suono in una impalpabile nube di dolore.

La cura di Abbado nella definizione dei dettagli si fonda sullo studio di un’opera che restituisce in versione integrale: per la semplice ragione che lo splendore del mosaico deriva dall’incastro delle singole tessere. Anche i personaggi di fianco ricevono infatti insolito slancio da una compiuta caratterizzazione vocale: così per la poderosa, monumentale Alisa di Natalia Gavrilan, che diventa una sorta di protettiva Brangäne ante litteram; così per l’insinuante Normanno di Matteo Mezzaro, quasi uno Jago di tenorile slancio rossiniano nel sibilare le accuse delatorie da cui discende la catastrofe. Eccezion fatta per un attacco non perfettamente calibrato, l’attendibile Arturo di David Astorga esibisce una tenorilità di bella grana e solida schiettezza.

Anche il quartetto dei protagonisti, seppur con esiti diversi, appare degno di interesse. L’applausometro premia Michele Pertusi che, a diciotto anni esatti di distanza dal suo primo Raimondo palermitano, sigla l’ennesima prova maiuscola: coniuga infatti autorità e autorevolezza, continua a sfoggiare un timbro di rara omogeneità e pastosità, cesella entrambe le arie con un’emissione talmente levigata, suadente e persuasiva da diventare deus ex machina dell’intreccio. Nel repertorio italiano di primo Ottocento non è più solo una certezza ma un indiscutibile punto di riferimento. Deve invece ancora maturare Ernesto Petti, certo più a suo agio nei panni di Enrico che in quelli del rozzo compar Alfio dell’estate scorsa. Scelte più oculate gli consentiranno di lavorare su un materiale vocale importante e di considerevole proiezione ma ancora avaro di sfumature: il carattere vilain del ruolo certo non osta il gioco di chiaroscuri e la nobiltà del porgere, che non dovrebbero difettare all’aristocratico scozzese.
Si ritaglia un vibrante successo personale Celso Albelo, che incarna un Edgardo irruente, aitante, padrone di un destino che non un solo istante gli sfugge di mano. E lo si capisce subito, sin da quando si appropria del duetto con Lucia e intona un «Verranno a te sull’aure» maschio eppur morbidissimo, tutto sul fiato, pronto a schiudersi ai fiammeggianti bagliori del registro sovracuto. Certo la voce si è considerevolmente irrobustita, nel corso degli ultimi anni, ma Edgardo rappresenta forse un ideale punto di equilibrio tra il repertorio contraltino, con cui si è imposto nella prima parte della sua carriera, e la virata più drammatica che le ha impresso negli ultimi anni. È interessante indagare gli accorgimenti che adotta per conferire plasticità a un fraseggio sempre nitidissimo, poi incandescente: accenta vigorosamente le sillabe, arrota le liquide, scandisce il discorso musicale con un’energia che gli consente di dominare il largo concertato del Finale II, quindi di sbalzare una scena finale che è al tempo stesso eroica e dolente, romanticamente protesa verso un altrove che conquista unicamente con le seduzioni del canto grazie a un’emissione sempre timbrata, tersa, cristallina.

La vera sfida della serata, tuttavia, era rappresentata dal debutto siciliano – e italiano nel ruolo – della giovanissima Sara Blanch: il pubblico le accorda i suoi favori, consapevole che si trattava di una sfida particolarmente temibile, visto che calcava un palcoscenico che ha consacrato tutte le più grandi interpreti del ruolo, da Maria Barrientos a Toti Dal Monte, da Joan Sutherland (ventotto chiamate alla ribalta nel 1960!) a Renata Scotto (solo… quindici, otto anni più tardi), da Cristina Deutekom a Mariella Devia, fino alla storia più recente rappresentata da Desirée Rancatore ed Elena Moșuc. L’artista spagnola è, nel complesso, interprete solida e attendibile del ruolo: non brilla forse per le risorse timbriche, prive di una connotazione personale, né per una coloratura meticolosa e diligente ma non certo sfolgorante. E però bisogna accreditarle un’invidiabile sicurezza e un meticoloso scavo interpretativo, che emerge nella cura con cui sottolinea singole frasi: l’abbandono di «Ceda, ceda ogn’altro affetto», lo slancio risoluto con cui attacca il duetto «Il pallor funesto, orrendo», la staffilata con cui trafigge «(La mia condanna ho scritta!)». Blanch incarna una Lucia lirica e meditativa, ripiegata su un dolore consustanziale, inconsolabile, che si scioglie in un «Ardon gl’incensi…», lentissimo, ipnotico, frutto di una vocalizzazione limpidamente scandita: nella glass harmonica trova la voce di un dialogo impossibile, eco siderale di un distacco ormai incolmabile.

Teatro Massimo – Sotto una nuova luce
LUCIA DI LAMMERMOOR
Dramma tragico in due parti e tre atti di Salvadore Cammarano
Musica di Gaetano Donizetti

Lord Enrico Ashton Ernesto Petti
Lucia Sara Blanch
Edgardo di Ravenswood Celso Albelo
Raimondo Bidebent Michele Pertusi
Arturo David Astorga
Normanno Matteo Mezzaro
Alisa Natalia Gavrilan

Orchestra e Coro del Teatro Massimo di Palermo
Direttore Roberto Abbado
Glass harmonica Sascha Reckert
Maestro del coro Ciro Visco
Mise en espace Ludovico Rajata
Costumi William Orlandi
Progetto visivo William Orlandi e Ludovico Rajata
Animazione digitale Fabiola Nicoletti
Luci Fiammetta Baldiserri

Lo spettacolo è disponibile al link:
https://www.youtube.com/watch?v=ROfKmlJECbs

Palermo, 22 maggio 2021

Foto copertina: Franco Lannino

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