Chiudi

Palermo, Teatro Massimo – Ernani

Condivisioni

Con un doppio Verdi si era bruscamente chiuso, un anno or sono, il sipario del Teatro Massimo di Palermo (dopo Falstaff, durante le prove di Nabucco) e con un altro Verdi è ripresa la produzione del 2021: con «un’opera normale», come l’ha opportunamente definita Omer Meir Wellber, dopo tutte le creazioni e i progetti speciali che hanno costellato la programmazione dell’ente lirico siciliano, dall’estate scorsa fino a ora. È singolare come la visione di questo Ernani susciti sentimenti contrastanti: da un lato il ‘sentirsi a casa’, che corrisponde certo all’impressione prima evocata da Wellber; ma dall’altro anche alla strana sensazione di routine che ormai accompagna le produzioni concepite per lo streaming, alle quali ci stiamo lentamente assuefacendo. Pure, proprio questo non era un Ernani di routine, ma semmai minutamente pensato nei dettagli e per questo meritevole di attenta visione: a cominciare dalla dedica dello spettacolo, «con affetto e gratitudine», alla memoria di Vincenzo La Scola – nel decennale della prematura scomparsa – che proprio a Palermo era stato l’ultimo, fiammeggiante, indimenticabile Ernani.

Grazie al ricordo del compianto tenore, questo Ernani è un appassionato e appassionante viaggio nella memoria: a quella tarda primavera del 1999 in cui il Massimo presentava uno spettacolo destinato, col tempo, a diventare pietra miliare nell’interpretazione dell’opera, in virtù di una produzione di sapiente fattura artigianale, firmata per la regia da Beppe de Tomasi. Nulla di rivoluzionario, tutt’altro: un sapiente, fervido omaggio alla tradizione ottocentesca, che lo scenografo e costumista di allora, Francesco Zito, ricorda nella bellissima intervista che si ascolta durante l’intervallo. Era uno spettacolo che oggi definiremmo di archeologia creativa: prendeva le mosse infatti dai figurini ottocenteschi del conte Lucio Tasca, già sovrintendente del Teatro Carolino di Palermo e grande mecenate del soggiorno palermitano di Wagner; per approdare alla visione di Zito stesso, che filtra l’impianto cinquecentesco del dramma lirico verdiano attraverso uno sguardo ottocentesco, un’eleganza spettacolare e sontuosa che portò alla realizzazione di soggioganti tableaux vivants, liberamente ispirati alla pittura di Hayez. Per questo è significativo che il Teatro Massimo, evitando inutili dispendi di risorse, abbia fatto ricorso a questa produzione d’archivio: brilla lo sfarzo di stoffe preziose, provenienti dalle seterie di San Leucio come di Londra o dell’Estremo Oriente, tutto un tripudio di seta e broccato e velluto dévoré destinato a dar corpo alla magnificenza degli eroi. Uno splendore che, sotto i riflettori delle telecamere, si vede e si sente, si percepisce e diventa fin quasi tangibile.

I costumi spettacolari di Zito sono certo l’elemento più intrigante di una mise en espace, sobriamente impaginata da Ludovico Rajata, che non vuole essere regia ma mera ambientazione dello spettacolo: da qui la proiezione dei bozzetti e dei figurini originali dello spettacolo, ad accompagnare ogni mutazione scenica; fino all’animazione digitale di Fabiola Nicoletti, che trasforma l’intera sala del teatro in onirico sfondo della vicenda, fino alla metamorfosi dei palchi – nel celeberrimo Coro del terz’atto – in un brulicante alveare di passioni risorgimentali. Un tributo multimediale al tono viscontiano della produzione, accorata memoria di quella scuola di sentimenti che il melodramma verdiano è stato, e forse continua a essere.

Ma non minori meriti riveste la parte musicale, affidata ancora una volta alla bacchetta di Wellber, che sorprende una volta di più. Abituati alle sue concertazioni tardo-ottocentesche, se non alle sue predilezioni contemporanee, non era facile immaginarne una tale consentaneità con il soffio, con il respiro della folgorante partitura verdiana; e meno che mai una lucida capacità analitica, capace di rispettare la struttura della ‘solita forma’, ma al tempo stesso di smontare e rimontare il prezioso gioco di incastri dei numeri chiusi, tanto da farne risaltare la straordinaria modernità d’impianto. Complici due elementi: da una parte un cast dominato da due punte di diamante, circondate da elementi di valido rilievo; e dall’altra – per una volta occorre ammetterlo – dall’assenza di applausi, che permettono di ascoltare l’intera arcata dei pezzi, senza che la conclusione venga fagocitata dagli interventi del pubblico.

Si dirà, a questo scopo, di un unico numero, che è parso quello più riuscito, autentica cartina di tornasole dell’intera interpretazione: il n. 7, la Scena e Terzetto su cui si apre il secondo atto, dopo il coro d’introduzione. Molto si è scritto, ad esempio, del Silva di Michele Pertusi: e ogni occasione è buona per soffermarsi sul talento interpretativo del basso parmigiano. Già le poche frasi del recitativo gli bastano per illuminare il sottotesto verbale: come quando alleggerisce l’ultima parte del verso «Fu sempre sacra a’ Silva, e lo sarà», quasi a voler dimostrare quell’attaccamento alle tradizioni avite che gli interventi di Ernani rischiano di mettere in discussione. L’arrivo di Elvira – Eleonora Buratto, che si misura nuovamente con questo ruolo, a pochi mesi di distanza dal debutto al Festival Verdi dello scorso anno – è semplicemente travolgente, con una vorticosa, drammatica, sicura ascesa al la acuto. Morbidamente sostenuto dagli archi, il Tempo d’attacco è forse la pagina più complessa: perché Ernani rivela la propria identità, con una scrittura che va «declamata» ma che al tempo stesso s’increspa grazie alle frequenti fioriture. Giorgio Berrugi ne è interprete attendibile: forse non seduce per la bellezza intrinseca del timbro, ma per la facilità dell’emissione, per l’eleganza con cui sgrana le agilità, ma soprattutto per la morbidezza con cui elude lo scoglio degli accenti che accompagnano la salita verso l’acuto, moderna rappresentazione di un eroe romantico, caloroso, mai sopra le righe. E proprio il senso dell’equilibrio – insieme al calore e a un colore di forte impatto emotivo – lo accomuna al fervore di Buratto, che invece traccia ampie campiture melodiche: nell’incalzare della direzione di Wellber diventano angoscianti pulsazioni che si stagliano contro la muraglia – umana, prima ancora che vocale – di Pertusi.

L’uscita di scena di Silva, dopo un breve recitativo, serve al direttore per surriscaldare ulteriormente un’atmosfera già tesissima: Wellber segue le dinamiche, le recondite pieghe di una drammaturgia fondata sul colpo di scena, sull’improvviso ribaltamento delle situazioni, autentico marchio di fabbrica della fucina vittorughiana. Da qui l’importanza delle battute di silenzio, ma anche la necessità di risolvere il repentino trascorrere delle emozioni su un piano squisitamente musicale: cosa che Buratto perfettamente asseconda grazie al legato con cui accompagna una frase, «Non son, non sono rea | come tu sei crudel», ponte magistrale verso la richiesta di perdono di Ernani e la rinnovata dichiarazione d’amore di Elvira, esaltata con legittimo trasporto. Il cantabile «Ah morir potessi adesso!» è pagina breve, ma preziosa: ed è un peccato che il tenore sia costretto a sbiancare i suoni, sopra il rigo, perché gli fa da contraltare un soprano che trova accenti teneramente flautati, dando un senso anche metaforico al morendo che suggella il duettino, sinistra premonizione della fine che li attende. L’improvviso ritorno del Grande di Spagna – e soprattutto la notizia dell’avvicinarsi del re, anticipata dal sicuro Jago di Andrea Pellegrini, recente vincitore del premio Teatro Massimo al Concorso Viñas – rilancia l’azione: l’Allegro agitato della stretta finale è semplicemente elettrizzante, nell’opposizione tra il desiderio di vendetta martellato da Silva, con voce tonante e punitiva, il cupio dissolvi di Ernani e la svettante invocazione di Elvira, che corona la scena con la saetta di un luminoso si bemolle acuto.

Quanto sopra per raccontare come il recente Ernani palermitano viva di un senso del teatro condiviso anche dal resto della distribuzione, a cominciare dall’ottima compagine corale, cui la direzione di Ciro Visco non lesina senso dei coloriti e delle sfumature. In recupero rispetto alla prestazione scaligera del 2018, Simone Piazzola è un don Carlo di rango e d’indomita sicurezza: si ammira un «Vieni meco, sol di rose» a fior di labbro, anche se latita forse lo smalto di un tempo, che ne faceva una delle più interessanti promesse del canto verdiano. Accanto alla maestosa Giovanna di Irene Savignano, si ritaglia un intrigante cammeo il Riccardo di Carlo Bosi. È, insomma, un Ernani impetuoso e romantico, grandioso e incandescente, tormentato come il cielo di nubi che fa da sfondo al tragico finale: onore a chi ne ha acceso la miccia, facendone esplodere il potenziale drammatico.

Teatro Massimo – Sotto una nuova luce
ERNANI
Dramma lirico in quattro parti di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi

Elvira Eleonora Buratto
Ernani Giorgio Berrugi
Don Carlo Simone Piazzola
Silva Michele Pertusi
Giovanna Irene Savignano
Riccardo Carlo Bosi
Jago Andrea Pellegrini

Orchestra e Coro del Teatro Massimo di Palermo
Direttore Omer Meir Wellber
Maestro del coro Ciro Visco
Mise en espace Ludovico Rajata
Costumi e progetto visivo Francesco Zito
Animazione digitale Fabiola Nicoletti
Luci Giuseppe Di Iorio
Regia televisiva Antonio Di Giovanni

image_print
Connessi all'Opera - Tutti i diritti riservati / Sullo sfondo: National Centre for the Performing Arts, Pechino