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Palermo, Teatro Massimo – Carmen

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Né qui né ora, sempre – o forse mai. È questa la caratteristica fondamentale del mito, di personaggi sospesi nel tempo perché credibili in ogni tempo, di chi c’è sempre stato e ci sarà sempre. È bello ritrovare Carmen di Georges Bizet, titolo certo celeberrimo ma non troppo abusato, in apertura della programmazione autunnale del Teatro Massimo di Palermo: quasi uno scorcio di programmazione che sapientemente accosta il grande repertorio – La bohème, poco prima delle feste natalizie – ad alcuni titoli più rari, il belliniano Pirata, attesissimo sin dalla passata stagione, a una gemma del barocco britannico, Dido and Æneas, senza nient’altro prima dopo la tragedia della regina cartaginese. Anche Carmen ritorna esattamente un anno dopo la programmazione originaria, quasi a voler riannodare le fila di un discorso brutalmente interrotto, fortunatamente ripreso. Ed è bello che a fare da padrino alla riapertura del Teatro ci sia il suo direttore musicale, Omer Meir Wellber, non solo presenza assai gradita al pubblico palermitano, ma verrebbe voglia di dire ormai irrinunciabile: per la sintonia palpabile con un’orchestra in stato di grazia, che lo asseconda in una lettura trascinante della partitura, ma anche per la sorgiva, solare espansività della sua interpretazione, che di fatto giustificano la ripresa a soli cinque anni dall’edizione precedente.

Carmen è tutta lì, straordinaria paletta cromatica dalle tinte rutilanti, ma segnata – verrebbe quasi da dire impiombata, sin da subito, da quel tema della morte che Wellber fa diventare un velo che ammanta l’intera composizione. Ecco perché è pronto a scandagliare la forza, l’intensità, l’impatto di una Spagna dai ritmi travolgenti, ma al tempo stesso a definirne un contorno nero, un fosco alone del destino che incombe e contribuisce ad accrescere il fascino di Carmen, creatura enigmatica e complessa. Ne scaturisce un dramma asciutto, condensato, ridotto alla sua essenza: i recitativi parlati sono soppressi o ridotti a pochi scambi di battute, la musica riacquista tutto il suo potere descrittivo negli entr’actes, misterioso e interrogativo il secondo, immerso in una opalescente chiaria lunare il terzo, teso e drammatico l’ultimo. Ed è raro vedere quanto tutto questo coincida con uno spettacolo – ormai un classico, quello firmato da Calixto Bieito – con il quale intreccia una corrispondenza ideale: spazio vuoto riempito dalla musica, abitato dalle sue emozioni, saturo perfino nei silenzi.

Il Massimo di Palermo figura tra le istituzioni musicali che hanno coprodotto questa messinscena: la cui efficacia viene puntualmente verificata a ogni ripresa – l’ultima nella sala del Basile, come si diceva, risale al 2016 – ma che adesso appare singolarmente in linea con le esigenze teatrali post-pandemiche, nella puntuale ripresa firmata da Alexander Edtbauer. La scena è vuota e, dunque, permette agli esecutori di avere ampio spazio a disposizione per una regia dalla fisicità esuberante, una tra le poche, peraltro, che si permettono di muovere coro e figuranti con movimenti che inondano, invadono l’intero palcoscenico. Sempre più si apprezza, peraltro, anche il disegno scenico di Alfons Flores: solo un’enorme arena semicircolare, appena accennata sullo sfondo, buia come il destino dei personaggi che emergono dalle nebbie, da quell’indistinta linea di frontiera che i tagli di luce di Alberto Rodriguez Vega s’incaricano di tracciare. Per il resto c’è poco, pochissimo, quasi nulla: una cabina telefonica, disperante richiamo a metà strada tra Cocteau e Poulenc; un cimitero di Mercedes, luogo di contrabbando e di transazioni impossibili; e la sagoma del toro di Osborne, icona di una Spagna che viene demolita, smontata, trascinata fuori dalla scena. Perché Carmen è solo e unicamente groviglio di passioni estreme e ancestrali, di una vitalità pressoché insopportabile, di un erotismo che sconfina nella violenza e nella morte. Ne è sintesi l’inizio del terzo atto, una sorta di liturgia laica, struggente invocazione che un giovane torero (Gaetano La Mantia), rivolge alla luna, completamente nudo, la notte prima del confronto esiziale con l’animalità, con la parte buia che alberga dentro ciascuno di noi.
Raccontano Carmen due singolari narrat(t)ori, una ninfetta sempre pronta ad abbronzarsi al caldo solo del Mediterraneo e Lillas Pastia (Pietro Arcidiacono), che in realtà è un magnaccia, un lenone, l’oscuro burattinaio della vicenda. E con loro una folla di spettatori («Sur la place | Chacun passe, | Chacun vient, chacun va») costituito da un coro in forma smagliante, preparato da Ciro Visco e questa volta integrato dalle pimpanti voci bianche di Salvatore Punturo, nel brillante intervento del primo atto. E poiché questa Carmen è opera di forti personalità, anche i ruoli di fianco risultano assegnati con cura, con l’aitante Moralès di Tommaso Barea e lo Zuniga maschio e litigioso di Giovanni Battista Parodi, insieme a un quartetto di contrabbandieri di pregio (Hila Baggio e Sofia Koberidze, Carlo Bosi e Nicolò Ceriani), tutt’altro che comico perché dedito a un mestiere difficile e rischioso. Forse, l’unica che si estranea da questa temperie è la Micaëla di Ruth Iniesta, autentica tartine au beurre in mezzo a cotanti plats de résistance, pronta a spandere il miele della sua voce ambrata per incarnare una purezza, un candore, una limpidezza morale contraddetti dapprima dalla volgarità kitsch del costume, quindi dal gestaccio con cui si congeda da Carmen, quando tenta di riportare sulla retta via don José. È, si sa, un ruolo destinato al successo, come quello di Escamillo, che Bogdan Baciu restituisce con vigore non privo di una certa ruvidezza, con malcelata eleganza.

Conquista e convince pienamente il don José di Jean-François Borras, e non solo perché, unico francese del cast, riconcilia con la lingua della Senna. Vanta altresì un’emissione morbidissima, un timbro pieno e sfolgorante, una sicurezza tecnica che gli consente un uso sapiente delle mezze voci: da qui prende vita un personaggio tutto impostato sul gioco delle sfumature (esemplare «La fleur que tu m’avais jetée» con tanto di smorzatura finale), per descrivere una fragilità e un’insicurezza che, a partire dal terzo atto, diventano contrapposizione netta al «démon» di cui è preda, fino a un finale parossistico per intensità emotiva, ma sempre controllatissimo sotto il profilo squisitamente vocale. Sarà vittima e carnefice, al tempo stesso, della seducente Carmen di Annalisa Stroppa, che finalmente sembra affrancarsi da un comprimariato di lusso per assumere i panni di una donna seducente ma anche, al tempo stesso, quasi di una strega. Perfettamente la asseconda Wellber non solo nella ricerca di colori, che arricchiscono una pasta vellutata nei centri quanto vigorosa negli acuti: a cominciare dalla seconda strofa dell’Habanera, che non è mera ripetizione della prima ma canto ipnotico, quasi sottovoce, inquietante sortilegio che indirizza contestualmente a José, a Zuniga, a tutti gli uomini che la circondano. E la sortita troverà fosca eco nel Terzetto delle carte, che ne sollecita la densità dei gravi quando ansiosamente compulsa una sentenza di morte inappellabile, un giudizio insindacabile e definitivo. Combatterà con le unghie e con i denti, con grinta e con coraggio, con slancio e con passione: ulcerante, il duetto conclusivo diventa scontro tra poli opposti, identità distinti e distanti, ma con uno strumento sempre malleabile e usato in maniera vigile e accorta. Al servizio del dramma, ma nel pieno controllo della musica.

Teatro Massimo – Opere e balletti 2021
CARMEN
Opéra-comique in quattro atti di Henri Meilhac e Ludovic Halévy
Libretto e musica di Georges Bizet
Edizione critica a cura di Robert Didion (Schott, 1992)

Don José Jean-François Borras
Escamillo Bodgan Baciu
Le Dancaïre Nicolò Ceriani
Le Remendado Carlo Bosi
Moralès Tommaso Barea
Zuniga Giovanni Battista Parodi
Carmen Annalisa Stroppa
Micaëla Ruth Iniesta
Frasquita Hila Baggio
Mercédès Sofia Koberidze
Lillas Pastia Pietro Arcidiacono
Torero Gaetano La Mantia

Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Massimo
Direttore Omer Meir Wellber
Maestro del coro Ciro Visco
Maestro del coro di voci bianche Salvatore Punturo
Regia Calixto Bieito, ripresa da Alexander Edtbauer
Scene Alfons Flores
Costumi Mercè Paloma
Luci Alberto Rodriguez Vega
Allestimento del Teatro Massimo, in coproduzione con Gran Teatre del Liceu,
Teatro Regio di Torino, Gran Teatro La Fenice di Venezia

Palermo, 19 settembre 2021

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