Il Teatro Coccia di Novara, nel lungo lockdown, si è distinto per essere fra i teatri d’opera più “sperimentali” d’Italia. Ha “osato” tanto, presentando la prima opera smart concepita solo per lo streaming. Ha puntato molto sull’opera contemporanea e sulle opere di breve durata, adatte a essere eseguite online e spesso commissionate per l’occasione. Eppure, terminato questo periodo, sembra che a sale teatrali riaperte la tendenza sia ancora quella di mantenere vivo un piano di programmazione fuori dai tradizionali schemi del repertorio operistico. Così, il prossimo novembre, ci sarà la ripresa dell’opera da camera I viaggi di Gulliver, di cui si è già riferito (link), poi due prime assolute su commissione del teatro stesso in omaggio al settecentesimo anniversario della morte di Dante: Rapimenti d’amore su musica di Cristian Carrara e libretto di Davide Rondoni e Un divorato cuore su musica di Joe Schittino, Cristiano Serino e Marco Taralli. Infine, l’anno si concluderà con Cendrillon di Pauline Viardot e La cambiale di matrimonio di Rossini messa in scena in collaborazione con il Conservatorio Guido Cantelli di Novara, che sta realizzando un interessante progetto, intitolato RossiniLab, assai ben pensato e strutturato dal tenore e docente Giovanni Botta, per individuare gli interpreti di questo allestimento in versione semiscenica.
Nel frattempo, invece di riaprire il teatro al pubblico con un titolo di repertorio, il Coccia ha lanciato un’altra sfida. L’ha vinta sul piano dell’interesse culturale e sulla qualità esecutiva della proposta, ma ha pagato la scelta troppo sofisticata con una prima del 23 ottobre pressoché disertata dal pubblico. È stata una tristezza vedere la sala praticamente vuota per assistere a Il castello di Barbablù di Béla Bartók proposto per la prima volta con riorchestrazione per organico di soli 23 elementi a cura degli studenti della Accademia AMO, curata da Paola Magnanini e Salvatore Passantino con la supervisione di Marco Taralli. Affidata alla sensibile e accorta bacchetta di Marco Alibrando, che dirige alla guida dell’Orchestra del Teatro Coccia anche una sorta di preludio all’opera intitolato Dopo l’ultima stanza. Preludio a Barbablù, comprendente la musica di Claudio Scannavini e le brevi parte recitate affidate alle attrici Giuditta Pascucci (Judith) e Carolina Rapillo (Arianna), la partitura di Bartók abbandona l’iridescente tumulto orchestrale che la caratterizza per concentrarsi su cellule tematiche orchestrali che con fredda, talvolta tagliente evidenza espressiva, descrivono l’atmosfera che sta a cuore anche al bello spettacolo firmato dalla regista e coreografa Deda Cristina Colonna, con scene e costumi di Matteo Capobianco.
Essi immaginano il castello di Barbablù come una stilizzata struttura lignea con sette lati e altrettante porte aperte su un interno dove domina un trono; struttura appoggiata su una pedana circolare che ruota su se stessa. Un saggio utilizzo delle proiezioni sulle pareti in carta opaca trasparente delle mura del castello aiuta a tracciare passo dopo passo un sentiero dell’anima inesorabilmente condizionato da un destino senza speranza d’amore. A ogni apertura di porta vengono tese delle corde che alla fine imbriglieranno, come nella tela di un ragno, l’ultima donna che prova a liberare Barbablù dalla sua solitudine e dal gelido e umido buio della dimora entro la quale si svolge una vicenda simbolica che mira a raccontare, secondo il meditato pensiero registico di Deda Cristina Colonna, una storia di incomunicabilità in bilico, anche musicalmente, fra simbolismo e quel primo espressionismo che analizza la mente umana svelandone i misteri più reconditi della psiche. Judith è l’ultima delle mogli di Barbablù, ma come le altre non finirà, come lei crede, assassinata, bensì imprigionata nella sua bellezza, assisa su un trono con il suo candido mantello a lingue di stoffa, con alle spalle le sagome delle altre donne, quelle che Barbablù conobbe al mattino, a mezzogiorno e alla sera. Judith, quella incontrata di notte, concluderà questo ciclo finendo come pietrificata in questo spazio emotivo. Ecco perché, all’apertura della settimana porta, lo spettacolo non mostra le altre tre donne vive, a dimostrazione di come non siano state assassinate, bensì come maschere su una cornice di bianche silhouette; non creature, ma esseri della mente, deificate in immagini psichiche. Ogni apertura di porta rivela quindi non solo gli ambienti del castello e i possedimenti del duca (la camera di tortura, l’armeria, i tesori, i giardini e i domini di Barbablù), ma anche le stanze segrete dell’anima del suo proprietario, impenetrabile abisso di mistero sul quale lo spettacolo gioca con un linguaggio visivo in perfetto equilibrio fra allegoria e metafora. E quando Barbablù presenta, all’apertura della quinta porta, la magnificenza delle sue terre, ecco che il buio, che all’inizio avvolgeva il castello e si colorava di venature rosso sangue, cede all’abbagliante luce ottenuta con tutta l’illuminazione esistente nella sala del Coccia, compreso il bel lampadario, con un affetto indubbiamente suggestivo. Il buio tornerà a scendere all’apertura delle ultime due delle sette porte che Judith insiste a voler aprire (quella del lago di lacrime e quella che svela le precedenti consorti di Barbablù), siglando la sua paralisi definitiva: la prigionia in quello spazio emotivo che si riduce fino a “implodere – come scrive la regista – nell’ineluttabilità di una fine senza sorprese, senza salvezza, senza scelta”.
Anche musicalmente lo spettacolo regala garanzie qualitative nella direzione di Marco Alibrando. Il giovane e promettente direttore siciliano ricama i suoni in senso espressivo su uno strumentale che, nella versione quasi cameristica presentata per questa occasione, offre un respiro sonoro alle emozioni della psiche dei protagonisti, giocando sull’espressività degli strumenti più che sulla massa orchestrale, per donare all’opprimente atmosfera che avvolge il castello quella gelida visione sonora declinata in senso emotivo con attento descrittivismo musicale.
I due protagonisti sono assai bravi. Spicca il Barbablù di Andrea Mastroni, autorevole sia scenicamente che vocalmente, in bella evidenza nelle pagine dove la sua tonante voce di basso trova modo di invadere di suono la sala, soprattutto quando declama le meraviglie del suo regno ad apertura della quinta porta. Ottimo anche il soprano statunitense Mary Elizabeth Williams, salvo qualche perdonabile suono affaticato in acuto ma con una tenuta drammatica ed espressiva di tutto rispetto.
Al termine dello spettacolo, gli applausi dei pochi spettatori sono stati meritatamente calorosi. Ora è giunto il momento che al Teatro Coccia si pensi che la presenza di pubblico non deve essere un optional, ma una ragione sulla quale progettare il proprio futuro.
Teatro Coccia – Stagione autunno-inverno 2021
DOPO L’ULTIMA STANZA. PRELUDIO A BARBABLÙ
Musica di Claudio Scannavini
Judith (attrice) Giuditta Pascucci
Arianna (attrice) Carolina Rapillo
IL CASTELLO DI BARBABLÙ
Opera “mistero” in un atto
Musica di Béla Bartók
Libretto di Béla Balázs
Orchestrazione per organico ridotto di
Paola Magnanini e Salvatore Passantino
(Accademia AMO)
Barbablù Andrea Mastroni
Judith Mary Elizabeth Williams
Orchestra Teatro Coccia
Direttore Marco Alibrando
Regia Deda Cristina Colonna
Scene e costumi Matteo Capobianco
Luci Ivan Pastrovicchio
Nuovo allestimento in
Coproduzione Fondazione Teatro Coccia e
Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi
Novara, 23 ottobre 2021