Dopo sette mesi di opere in forma di concerto e differita streaming, dunque in assenza del pubblico per la stretta dettata dall’emergenza pandemica, anche al Teatro San Carlo è tornato lo spettacolo dal vivo e con esso, in palinsesto, il titolo più battuto di sempre: neanche a dirlo, La traviata di Giuseppe Verdi. In sintesi, non una idea brillante in termini di scelte né, tantomeno, il salto per un allestimento compiuto così come non poche Fondazioni liriche d’Italia e d’Oltralpe si sono invece prontamente ingegnate a realizzare. Bensì, una soluzione semiscenica e a fondo nero unico, prodotta ad hoc e a cura della regista Marina Bianchi con pochissimi elementi-base (tre tavolini con sedie, una dormeuse, due piante di vere kenzie ai lati e, in alto, un lampadario di cristalli) atti a rievocare o, più precisamente, visivamente a scontornare, la drammatica vicenda musicale di Violetta. Quindi, in coerenza, tutti in abito scuro da sera, statico Coro “alla greca” sullo sfondo compreso, e cambi di costume per la sola protagonista apparsa in apertura sin dal Preludio (sul tema del suo “Amami, Alfredo”) nel sontuoso vestito in taffetas plissé e ben nove toni di rosso-arancio che lo stilista Roberto Capucci ebbe a creare nel 2002 per June Anderson nell’occasione di un nuovo Capriccio straussiano al San Carlo. Costume riciclato, è vero, ma tutto sommato qui ben centrato sia a emblema dello sfarzo del lusso di società che nella ridondanza di una scollatura simile ai petali di una grande camelia. E parimenti, a seguire sempre per lei, buona l’idea di abiti dalle linee e dalle tinte più semplici per poi tornare al termine in una significativa sdoppiatura sempre sul colore del fuoco, spegnendo la sua fugace esistenza in una essenziale sottoveste di raso rosso lacca e abbandonando invece il suo pomposo abito delle frivole feste su una sedia lì accanto, quale involucro senza vita di un passato ormai vuoto e definitivamente perduto.
Opera per la ripartenza, quindi, una Traviata in forma sostanzialmente minimal (assenti, ovviamente, le coreografie al Finale II) che tuttavia, osservata attentamente e in prospettiva d’insieme nei dettagli, ha presentato non pochi punti di forza e d’interesse. Per cominciare, la direzione musicale di Orchestra e Coro della Fondazione affidata al britannico Karel Mark Chichon, marito della recentemente ospitata a Napoli per Cavalleria Elina Garanča e maestro sul podio per la prima volta al San Carlo. Esattamente in linea con una visione dell’opera osservata come in distacco attraverso la sua camera oscura, l’approccio sonoro è risultato esattamente calibrato nei metri come in sonorità mai enfatizzate in effetti pompier, quasi a mo’ di sottotitolature discrete, attentissime al canto e a quel venir meno della vita evidente a partire dal bel triplo piano iniziale, nella contrazione dei valori ritmici, nel raro rispetto dei silenzi, dei respiri e, dunque, delle pause. Una lettura peculiare, a prima vista di sobria eleganza quanto, in realtà, con intelligenza collegabile a una dimensione volutamente interiore, così come evidente nella vistosa assenza del Mi bemolle sovracuto “di tradizione” al termine della cabaletta di Violetta al Finale I. O, ancora, ben chiaro nella preziosa ombreggiatura espressiva di sostegno ai non meno sorprendenti filati della protagonista sublimati “con estremo dolore” nel cuore del Duetto con Germont padre, nell’assenza di tagli o nella minuta meccanizzazione nell’accompagnare le danze di una società cinicamente fasulla e non meno burattinesca di quanto produrrà Puccini per i parenti di Cio-Cio-San. Analogamente apprezzabile l’equilibrio fra i piani sonori, sia fra le sezioni, sia nel gestire i livelli fra buca, palco e fuori scena, o lo spazio garantito ai timbri puri, ad esempio al solo – ottimo – del primo clarinetto.
Altro buon risultato a segno, al di là della congenialità e dell’ormai consumata conoscenza della partitura, l’estrema precisione ritmica, dinamica e timbrica del Coro, per la prima volta uscito sotto la preparazione del neo-nominato maestro José Luis Basso, tornato alla guida della compagine sancarliana dopo gli esiti assai felici registrati negli anni 1994-1996 e dopo l’incarico dal 2014 svolto all’Opéra di Parigi.
Passando allo screening delle voci, decisamente degna di nota risulta la Violetta Valéry del soprano Ailyn Pérez, inizialmente in primo cast, poi passata al secondo cedendo il testimone ad Aleksandra Kurzak. Ascoltata lo scorso ottobre dal vivo al San Carlo in una vincente Magda con La rondine di Puccini, il soprano americano di origini ispaniche ha ulteriormente convinto portando stavolta un ruolo di punta del suo repertorio, cesellandone i dettagli con apporti di assoluta originalità tecnico-espressiva all’innesto fra le componenti qui fondamentali tra il lirico, leggero e un drammatico giocato con sapienza sugli accenti più che spinto sulla forza. Al di là della già apprezzata padronanza di emissione e intonazione, la Violetta della Pérez colpisce innanzitutto per il colore e per l’adesione estrema a quanto scritto in pentagramma valorizzando, oltre all’arsenale di arpeggi, salti, trilli e puntature all’acuto (pur se sporadicamente prese con qualche fiato un po’ corto che le si perdona ampiamente), la tensione cantabile unitamente alla specificità del disegno metrico-ritmico, ad esempio nelle terzine, negli staccati, nella smozzatura in pause, negli appoggi espressivi spiccando, in special modo, per quelle sfumature in sospensione un attimo prima di volare verso le note più alte.
Al suo fianco, per l’Alfredo sempre del secondo cast, c’è il tenore catanese Ivan Magrì che, rispetto a quanto in genere si ascolta e probabilmente in virtù di una sua percepibile vocazione per lo stile di grazia, ritaglia il ruolo con fervore giovanile più chiaro e credibile seppur con un eccesso di portamenti canori che gli fanno perdere, soprattutto al primo duetto, non pochi colpi di colore. Verità di accenti e buona tempra vocale sfoggia in via crescente nell’Andante “De’ miei bollenti spiriti” dove, tuttavia, pone relativa attenzione agli scarti dinamici mentre, nella cabaletta seguente, mette perfettamente a segno sostanza espressiva e belle espansioni all’acuto con sigillo in do di petto. A garanzia di un Germont padre di qualità, il baritono George Gagnidze completava la terna in prima linea, sfoderando nella fermezza di stile e intonazione un’austera nobiltà di timbro e pregnanza. Mirabile la sua intesa con la Pérez nel corso delle otto diverse sezioni del Duetto e ricca di sfumature, oltre che di magnifici legati, la sua unica grande aria “Provenza il mar, il suol” con relativa cabaletta giustamente non tagliata. Completavano il cast Mariangela Marini (Flora Bervoix), un’ottima Michela Petrino (Annina), Lorenzo Izzo (Gastone), l’efficace Nicolò Ceriani (barone Douphol), Donato Di Gioia (marchese d’Obigny), Enrico Di Geronimo (dottor Grenvil).
Buona infine anche la risposta del pubblico, presente all’appello per i cinquecento posti concessi a recita secondo le norme vigenti. Pubblico che, nonostante la lunga assenza dalla sala del Niccolini, è rimasto quello di sempre fra l’arrivo all’ultimo minuto nelle prime file della platea già al buio, gli smartphone accesi per i selfie, qualche commento di troppo in piena musica fra i palchi e il solito cellulare che trilla nel melisma più delicato, stavolta piantato fra il “croce e delizia” del soprano.
Teatro San Carlo – Stagione 2020/21
LA TRAVIATA
Opera in tre atti Francesco Maria Piave
dal dramma La dame aux camélias di Alexandre Dumas
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Ailyn Pèrez
Alfredo Ivan Magrì
Giorgio Germont George Gagnidze
Flora Mariangela Marini
Annina Michela Petrino
Gastone Lorenzo Izzo
Il barone Nicolò Ceriani
Il marchese d’Obigny Donato Di Gioia
Il dottor Grenvil Enrico Di Geronimo
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Karel Mark Chichon
Maestro del coro José Luis Basso
Regia Marina Bianchi
Produzione del Teatro di San Carlo
Esecuzione in forma semiscenica
Napoli, 15 maggio 2021