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Napoli, Teatro San Carlo – La bohème

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Una Bohème in puro stile tardo Ottocento che inneggia, dopo oltre un anno e mezzo di assenza di pubblico al cento per cento in sala e di allestimenti a pieno regime in scena, alla libertà degli spazi e a una società che ha voglia di sognare e vivere la vita. Senza pudori, né troppi confini. In verità, l’applaudita nuova produzione firmata da Emma Dante per il suo esordio al Teatro San Carlo di Napoli e per la prima delle due inaugurazioni proposte a stretto giro (una a recupero dell’opera di Puccini saltata in apertura della scorsa stagione, la seconda in novembre con l’Otello diretto da Michele Mariotti, regia di Martone e ruolo del titolo al gettonato Jonas Kaufmann) poco azzarda e non dissacra sostanzialmente la triste storia di amore e morte di Mimì. Piuttosto, come ampiamente annunciato nei giorni precedenti al debutto, la butta fuori dalla soffitta, all’aria aperta in strada o sui tetti, calandone il breve vissuto in una società sospesa e senza veli, coeva e senz’altro più vicina alla nascita dell’opera, così come d’impatto ben ci raccontano alcune delle più celebri donne e prostitute dipinte da Henri de Toulouse-Lautrec, egli stesso pittore bohèmien. Ossia, i bozzetti per i ritratti alla cantante-attrice e musa Yvette Guilbert, lo schizzo su cartone Seula che, con quel suo corpo in abbandono sul letto approntato in una delle case chiuse frequentate dall’autore, nasce esattamente in sincrono con il capolavoro pucciniano, nel 1896. O, ancora, le Deux femmes deminues de dos maison de la rue des Moulins, tutti in via intuibile opera del pittore Marcello e in riproduzione a mo’ di murales sulle pareti esterne all’abitazione degli artisti bohémien. Ma, anche, riprodotti in abbondante carne e ossa, stando alla prima figura che scorrazza in scena: una prostituta maggiorata dai lunghi capelli bruni, in reggiseno e gonnellino a velo cortissimo, che si arrampica per le scalette in ferro fra i comignoli, seguita dal cliente di turno con cui si imbuca passando per la finestra in una delle abitazioni di una facciata a più piani, da casa di bambole. Stessa escort che poi si ritroverà a cavalcioni sul vecchio affittuario Benoit trovando stavolta sponda facile sui suoi gusti contrari alle donne troppo magre come da libretto di Illica e Giacosa.

È questa in sintesi l’ossatura comune ai due quadri esterni dell’allestimento realizzato dallo scenografo Carmine Maringola, avvalsosi dei costumi effettivamente bellissimi di Vanessa Sannino e delle luci di Cristian Zucaro. Quadri entrambi “in soffitta” ma di opposta tinta e diverso segno (nell’ultimo, i tanti lumini rossi cimiteriali accesi si stagliano tra i filari di comignoli), cui Emma Dante aggiunge ulteriori citazioni d’arte quali la Cicatrice di Betlemme dal presepe di guerra del britannico Banksy e il pranzo dei bohémiens riformulato alla tavola scarpettiana di Miseria e nobiltà. Inoltre: un trans, un gruppo di cinque suore che pregano e si agitano più un cardinale, tutti insieme a seguire uniti nel ballo di una quadriglia; più in alto, due ballerini che si sposano, al centro e più avanti al terzo atto, coppie di attori a raddoppio dei ruoli principali. Parimenti a saldare secondo e terzo quadro, rimodulando le didascalie di luogo previste dal libretto, c’è la facciata di un elegante palazzo parigino che, nell’atto ambientato al Café Momus, diventa scenario a mezzo fra un Harrods decorato per il Natale e qualcosa di molto simile allo Schiaccianoci coreutico, con tanto di piccoli abeti illuminati che scendono dall’alto e, per la via, una sfilata multicolore di fantasiosi giocattoli vivants, con acrobati, a corteo del venditore Parpignol, più marcia alla francese di militari in divisa con dinamiche da battaglia dei topi. Mentre, alla Barrière d’Enfer, l’edificio allude fantasiosamente, e al contempo, sia a uno dei due storici caselli doganali progettati da Ledoux al confine di Parigi, sia al Cabaré dove Mimì ritrova Marcello e Musetta. Al di là dei contenitori, il lavoro registico sui gesti attoriali o danzanti (ben concentrate e centrate le minime coreografie di Sandro Maria Campagna), così come la definizione delle atmosfere, risulta curato al centimetro, scolpito a meraviglia per i ruoli della seconda e più reattiva coppia, nella routine per la prima (al netto del braccio ingessato del purtroppo infortunato Stephen Costello nel ruolo di Rodolfo), meno efficace nel ritaglio di Schaunard e Colline. Ad ogni buon conto, ci si aspettava qualcosa di più.

Analogamente, sul versante sonoro, il direttore musicale in uscita dalla Fondazione, Juraj Valčuha, sul podio di Orchestra e Coro del Teatro San Carlo (quest’ultimo preparato con sensibilità e dovizia da José Luis Basso), sceglie di confezionare lungo le fila della Kleinkunst pucciniana un ligio commento sonoro, sterilizzando in soluzione sinfonica le tante invenzioni descrittive della partitura, spesso espandendone i tempi e assottigliandone i decibel – si immagina per non coprire le voci, non tutte di buon volume – quindi riservando poche scintille dinamiche in chiusa di quadro e a pochi altri apici agogici. Pertanto la parte musicale, più che fungere da motore trainante, si è complessivamente dipanata limando con delicata cura la drammaturgia timbrica pucciniana giocata per abbinamenti in scontorno, con archi per la coppia Mimì-Rodolfo, i legni per Musetta e i restanti artisti bohémien, piena orchestra per il Quartiere Latino e intaglio cameristico per gli scorci più intimi. Fra le suggestioni migliori, il tema della canzone di Natale per quinte parallele che si unisce all’olezzo di frittelle, ripreso e marcato in posizione stretta in apertura del quadro II, il Valzer – magnifico – di Musetta con relativo aggancio in climax di Marcello, l’intera trama di reminiscenze nel quadro di chiusura, mentre di efficacia parziale è risultato il tentativo di sfilacciare in dissolvenza l’uscita dalla scena d’assieme al Momus per lasciare il posto all’ingresso marziale dei soldati.

Riordinando il sistema dei ruoli in base al riconoscimento dei meriti canori e della resa scenica, vogliamo partire premiando la finalmente centrata Musetta del giovanissimo soprano Benedetta Torre, genovese classe 1994, allieva di Barbara Frittoli, un tracciato artistico già ricco di esperienze importanti fra cui si citano gli impegni a Ravenna, Salisburgo e a Chicago con Riccardo Muti, la parte di Arianna nel Minotauro di Silvia Colasanti, ruoli vari in diversi teatri lirici italiani, comprese varie Mimì, il debutto al Festival di Glyndebourne come Adina nell’Elisir donizettiano e ora, dopo la Petite messe solennelle di Rossini registrata al San Carlo al termine del 2020, finalmente il suo esordio operistico a Napoli. La sua Musetta risulta vincente innanzitutto perché restituisce la creatura vivace e autentica che esce fra libretto e partitura, grazie alla sua verità di gesto espressivo e al bel talento della voce. Non è, in sostanza, la tipica ochetta di facili costumi che strilla come una sirena per attirare le attenzioni di Marcello al Café Momus, e del pubblico in sala, dinanzi alla caricatura del suo vecchio accompagnatore Alcindoro. È invece, per quanto giovane e civettuola, già donna risoluta e pratica, sinceramente appassionata. Tradotto in note, una Musetta che vanta suoni rotondi e di peso sempre ben poggiati sul fiato, scatti ritmici decisi ma anche tenera sostanza che sa amalgamare fra i giri canori del suo Valzer. Con non minore pregnanza carichi di mordente sono i suoi interventi nel quartetto alla barriera d’Enfer così come, pur nella consapevolezza di essere meno degna nella devozione, sinceramente dolenti i suoi accenti di preghiera.
Neanche a farlo apposta, stessa età (27 anni il 20 ottobre), analoga ascesa fra i migliori palcoscenici d’Europa (è lui il premiato Barbiere “di qualità” svelato a Roma dalla regia tv in piena pandemia da Gatti e Martone) e pari bravura, sia tecnica che di stile, sfodera il baritono polacco Andrzej Filończyk, Marcello dallo slancio assai vivo e interprete dai tanti pregi. Ottima la sua dizione, altezza e prestanza scenica doc, una proiezione di voce che viaggia facile con tanto di preziosi armonici e accenti sempre a fuoco, già solo a sentire come stuzzica e raggira il malcapitato Benoit, per poi incalzare in “marcatissimo” (“Quest’uomo ha moglie e sconcie voglie ha nel cor!”), solleticando come accennato in chiave erotica la fantasia di Emma Dante.
A seguire, la Mimì del soprano veneto Selene Zanetti, dotata complessivamente di buon colore pucciniano e di un controllo della voce in grado di regalare soprattutto in zona acuta smorzature di notevole suggestione. La sua aria di presentazione e il duetto al primo quadro ne evidenziano la congenialità con il repertorio ma, anche, la necessità di un’ulteriore maturazione soprattutto in termini di densità da lirico puro e di una maggiore duttilità delle linee (nel suo libero rondò “Mi chiamano Mimì” tocca spesso la vocalità più tagliente di Butterfly), laddove i numeri in assieme e il finale ne evidenziano gli affondi di tono patetico. Ciò detto, non è la Mimì del secolo e certo non va a scalzare dalla recente memoria sancarliana la magistrale prova di Eleonora Buratto, messa a segno sulle stesse assi esordendo magnificamente nel ruolo nel gennaio 2018.
Al di là delle comprensibili sofferenze nella respirazione oltre che nei movimenti per la frattura al braccio destro, avvenuta proprio a Napoli scivolando nei giorni di prova su un pavimento di marmo umido di pioggia nella Galleria Umberto I, il tenore americano Stephen Costello nei panni del poeta Rodolfo si sente assai poco, specialmente all’avvio dell’opera (“Nei cieli bigi”, nella baldoria degli amici). A partire dall’Andantino affettuoso “Che gelida manina”, tuttavia, acquista maggior quota fino a trovare una migliore intesa con il soprano nel duetto “O soave fanciulla”. Il suo personaggio a ogni modo ostenta ampie arcate melodiche legate con maestria e condotte attraverso un fraseggio di nobiltà antica. Diciamo forse più idoneo al temperamento di un eroe romantico che a un romantico bohémien di fine secolo.
Nella norma, infine, lo Schaunard di Pietro Di Bianco, il Colline di Alessandro Spina che stacca un po’ troppo l’articolazione della sua “Vecchia zimarra”, debitamente in caricatura il Benoit/Alcindoro di Matteo Peirone, a fuoco il Parpignol di Daniele Lettieri. Completavano il cast Mario Thomas (Venditore ambulante), Sergio Valentino (Sergente dei doganieri), Giacomo Mercaldo (Doganiere), il gruppo dei figuranti-attori (Samuel Salomone, Yannick Lomboto, Davide Celona, Daniele Savarino, Roberto Galbo e Angelica Dipace).
Un plauso speciale al termine per il Coro di Voci bianche della Fondazione, diretto da Stefania Rinaldi.

Teatro San Carlo – Inaugurazione Stagione  2020/21
LA BOHÈME
Opera in quattro quadri
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica,
ispirato al romanzo di Henri Murger Scene della vita di Bohème
Musica di Giacomo Puccini

Mimì Selene Zanetti
Musetta Benedetta Torre
Rodolfo Stephen Costello
Marcello Andrzej Filończyk
Schaunard Pietro Di Bianco
Colline Alessandro Spina
Benoît/Alcindoro Matteo Peirone
Parpignol Daniele Lettieri
Venditore ambulante Mario Thomas
Sergente dei doganieri Sergio Valentino
Doganiere Giacomo Mercaldo
Attori Samuel Salamone, Yannick Lomboto, Davide Celona,
Daniele Savarino, Roberto Galbo, Angelica Dipace

Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Coro di Voci bianche del Teatro di San Carlo
Maestro del coro José Luis Basso
Maestro del Coro di voci bianche Stefania Rinaldi
Direttore Juraj Valčuha
Regia Emma Dante
Scene Carmine Maringola
Costumi Vanessa Sannino
Luci Cristian Zucaro
Coreografia Sandro Maria Campagna
Assistente alla regia Federico Gagliardi
Assistente alle scene Roberto Tusa
Assistente ai costumi Chicca Ruocco
Nuova produzione del Teatro di San Carlo

Napoli, 14 ottobre 2021

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