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Napoli, Teatro San Carlo in piazza del Plebiscito – Il trovatore

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Di color fosco e plasma potente è il sangue che avvampa e scorre fra i pentagrammi del Trovatore di Giuseppe Verdi proposto in piazza del Plebiscito a Napoli quale secondo titolo d’opera e a chiusura dei quattro tasselli della breve rassegna estiva “Regione Lirica” affidata al Teatro San Carlo, con finanziamento e targa della Regione Campania. Un Trovatore plastico e di gran forza, nonostante l’esecuzione all’aperto con relativa microfonazione e la semplice forma di concerto, al pari della precedente Carmen con l’applaudita Elina Garanča.
Per quanto restino motivo di rammarico sia la reiterata assenza del contesto scenico – laddove tutti gli altri teatri d’Italia hanno risolto al meglio nei mesi meno critici dell’emergenza pandemica – sia, in particolare, un’acustica manipolata ancor meno felice rispetto a quanto ascoltato in Bizet, l’edizione in campo vince facile e lascia a colpo sicuro il suo segno facendo leva sui due assi portanti indispensabili nella rilettura di un capolavoro fra i massimi del Romanticismo italiano, ultimo testo del librettista e direttore di scena napoletano Salvadore Cammarano (con importanti aggiunte del trentaduenne Leone Emanuele Bardare, essendo morto l’autore a stesura appena ultimata) e titolo realmente centrale della Trilogia popolare verdiana quanto a legami strutturali e sonori. Ossia, in prima battuta, perfettamente centrando quei quattro cantanti “più grandi al mondo”, per dirla in iperbolica intesa con il mitico Caruso, necessari al peculiare taglio drammaturgico-musicale della partitura. E difatti Stéphane Lissner, sovrintendente nonché responsabile artistico della Fondazione lirica napoletana, punta su un poker di voci stellari chiamando ancora una volta ma in diversa formazione dopo la “Regione Lirica” varata lo scorso anno sempre sul monumentale palco ai piedi del Palazzo Reale, il soprano Anna Netrebko per Leonora, il tenore suo compagno di vita e arte Yusif Eyvazov per il trovatore Manrico, il mezzosoprano – folgorante – Anita Rachvelishvili per la zingara Azucena e il magnifico baritono Luca Salsi per il Conte di Luna. In seconda, ma con peso non minore, una bacchetta di ottimo stile italiano per la restituzione dal podio di un copione strumentale per nulla facile, soprattutto se mutilo del supporto scenografico, che deve assommare in sé fuochi e parametri di una complessa vicenda multiprospettica, fatta di continui salti nel passato e scarti fra azione e narrazione, mistero, realtà e visioni, slancio eroico e scavo interiore. O, ancora, fatta di ellissi della storia (è il caso dell’arpa per comunicare la presenza “trobadorica” di Manrico fuori scena, nel primo numero del Conte di Luna o al termine, con analogo coup de théâtre sonico, nella torre a un passo dal supplizio, quindi dell’organo per accennare a un matrimonio neanche mai compiuto) e, in prima istanza, fatta di allucinate ossessioni (quelle del rogo infame) che solcano e turbano la mente come brividi, fra tremoli, trilli e note puntate agli archi. Inoltre, in posizione cardine, c’è la grande attenzione per le voci.

Prima ancora che sui cantanti, è dunque il caso di porre in debito risalto i meriti e la non scontata sensibilità musicale emersi con apprezzabile discrezione – niente salti, gesti sbracciati, smorfie e quant’altro – dalla direzione condotta interamente a memoria e seguita a fior di labbra da Marco Armiliato alla testa di Orchestra e Coro del San Carlo, quest’ultimo preparato dal recentemente nominato José Luis Basso. A partire da quel tellurico rullo di grancassa e timpani staccato in apertura per la breve intro strumentale che rimpiazza in modalità inedita la consueta Sinfonia, “piano” e a mo’ di lontano, triplice tremore sotterraneo fra gli inevitabili rumori di strada e del cielo (in totale si conta il passaggio di una decina di aerei), la solidità dei profili ritmico-dinamici e l’autenticità dello stile verdiano impressi dal podio innervano e sostanziano con viva fluidità i tracciati che intersecano dramma, storia e memoria, lugubri ombre e impennate, quinte visionarie, strette, spiccati e marcate spoggiature. Così come ben chiara risulta la volontà del maestro di evidenziare i richiami alle opere poste a cornice della medesima Trilogia, tornendone accuratamente linee e velature. Il direttore cura tra l’altro con mano particolarmente esperta le voci, tutte effettivamente di prima grandezza sia pur, ciascuna, svettante con la propria specificità. E lo fa scontornandone ruolo e carattere nel tempo come nei respiri, sostenendone gli accenti, esaltandone le dinamiche tanto nelle colorature di forza quanto nelle immense arcate cantabili. Quindi, lavorando sulla tavolozza d’insieme, riceve i migliori risultati da un’ultimamente assai reattiva sezione degli archi, nell’occasione capitanati dal violino di spalla Gabriele Pieranunzi, unitamente ai lodevoli interventi di arpa, percussioni e a un significativo contributo dei legni più acuti e degli ottoni.

Il primo a salire al proscenio è l’interessante basso Andrea Mastroni, capitano delle guardie e, come da schema, ruolo di secondo rango da giocare con il Coro in apertura. Un ruolo cui Verdi assegna un solo ma fondamentale numero, dalla complessità ben costruita e interna all’Introduzione con Coro di tenori e bassi, sia gli uni che gli altri dimostratisi molto efficaci nel mormorio staccato “a mezzavoce” come nel marcato “a tutta forza” attestando lavoro e impegno del loro nuovo Maestro. Per precisione metrica e attenzione nel dosaggio timbrico qui come nel magnifico affresco sugli zingari (Chi del gitano i giorni abbella?) e nel seguito del Conte al tempo di mezzo del numero 7 mentre vistosamente traballa (come da risposta sfibrata delle zingare alla ripresa e coro delle religiose) la sezione delle donne. Si tratta infatti del primo racconto che svela ai famigliari e agli armigeri del Conte i lividi dettagli sulla vicenda (Di due figli vivea padre beato). Il tutto, dinanzi al Palazzo Reale di Napoli, ma in quel che si deve immaginare come l’interno del Palazzo di Aliaferia di Saragozza. Un racconto articolato che Mastroni rende ben solenne e carico di mistero con tinta cupa e fibra compatta, per poi stringerne con singolare piglio ritmico le fila fra l’Allegretto (Abbietta zingara) e la stretta staccata in quadruplo piano dai coristi.
Viceversa, per chiarore del metallo sopranile, l’ancella Ines affidata a Vittoriana De Amicis tende a rimanere per lo più schiacciata al fianco dell’impressionante potenza di emissione e di risorse sfoderata da Anna Netrebko nei panni di una Leonora scolpita in rara evoluzione psicologica e con tratti nettissimi. E ciò non solo grazie alla resistenza di una voce dall’estensione ampia e per sua natura baciata da un volume che persino nelle tinte più smorzate sembra arrivare in ogni dove (si direbbe fino ai Camaldoli), sfidando dinamiche e microfoni, vento, aerei e piazza. Ma anche e in special modo, se si escludono le posizioni di gola, in virtù delle carnose sonorità distillate lungo le sue sempre ponderatissime salite in proiezione dai centri all’acuto, sublimando gli smalti accesi del lirico spinto con la vigorosa agilità delle rapide volute di coloratura. Nel Cantabile della sua celebre Cavatina d’esordio (“Tacea la notte placida”) tocca i momenti migliori nelle battute rilasciate con calda “espansione” sulle doppie scansioni da valzer, per poi brillare nella complementare Cabaletta sfiorettando con disinvoltura fra appoggiature, trilli serrati e arpeggi, suoni staccati, legati e poggiati. Quanto agli assieme, la sua presenza funge da luce e motore del Terzetto in chiusura della Parte I e del superbo Duetto con il Conte, con parità di esiti nel rapinoso Finale II e nel Terzettino in coda assicurando, con il suo canto, dinamica e sostegno. Poi l’apice interpretativo, messo a segno lungo l’intera scena prima dell’ultima Parte, scolpita ricercando preziose sfumature e accenti sin dal recitativo con il Ruiz del tenore Gabriele Mangione, ipnotizzando tutti, letteralmente, con le rilucenze al platino della sua Aria “D’amor sull’ali rosee” ripagata da uno scroscio di applausi e da una non accolta richiesta di bis. Non meno interessante il repentino cambio di stile e registro per la successiva Cabaletta “Tu vedrai che amore in terra”, scavata fra le pieghe di un’introspezione altamente drammatica.

Al suo fianco e con un’analoga prestanza canora in piena Yusif Eyvazov conferisce singolare fiato e slancio al personaggio di Manrico, presentandosi non visto con un lontano canto trobadorico che ha già qualcosa del Turiddu in apertura della Cavalleria. Il suo percorso in progressiva crescita, poggiato su fiati e note a prova di polmoni, infiamma la platea con la sua spettacolare cabaletta “Di quella pira”, fiera negli attacchi e nel furore, di bel colore e densa nelle emissioni che mirano dritto all’acuto, con un doppio e vincente salto mortale di petto (sul celebre Do4 non scritto) sorprendente sia per intonazione che per infinità di durata. Con tanto di ovazioni al termine. I suoi meriti, a ogni modo, vanno ricercati e premiati ben oltre l’eroico slancio. Ad esempio, nei notevolissimi confronti a duetto, laddove incontra ed esibisce in singolare intesa ritmica e timbrica l’amore per Leonora o l’affetto filiale accanto alla presunta madre Azucena.
Ad altissima definizione, oltre che esempio straordinario di teatro musicale affidato alla sola mobilità di linea della voce, è l’Azucena del mezzosoprano Anita Rachvelishvili, zingara d’altissimo impatto tecnico-espressivo. Con la sua affilata aderenza a parole e note entra nelle fibre più profonde del dettato verdiano, cogliendone tutte le angolazioni possibili fra canto e recitazione, realtà e visione. Nella sua allucinata Canzone (“Stride la vampa!”) potenzia la scansione e le livide tinte della cantilena, quindi crea all’interno una vera e propria regia canora, buttando giù la voce in un acre “cupo e allargando”, mutando d’accento, salendo in falsetto all’acuto nell’evocare la spettrale richiesta di vendetta gridata dalla madre tra le fiamme (non ripetuta nel tempo di mezzo). Come prevedibile, parimenti un capolavoro di accenti, salti e affondi a nervi tesi si rivela il suo Racconto (“Condotta ell’era in ceppi”) accanto al figlio scambiato e adottato. Si insinua fra le pieghe della voce e della psiche, ritorna all’ossessione della vampa, declama con ogni sua forza nelle battute in “agitatissimo” per poi allargare e smorzare i suoni al termine di un’amplissima gamma di stati d’animo e intenzioni.
E sempre nel solco della migliore interazione fra parola e musica è ritagliato l’antagonismo veemente del Conte di Luna di Luca Salsi: sonoro, autentico perché costantemente ben poggiato sul fiato persino agli estremi della sua estensione, di perfetta pregnanza e versatilità d’accenti. Saldo e impetuoso, infatti, nella Cabaletta “Per me, ora fatale” ma, anche, duttile nell’assecondare i morbidi tracciati del bel cantabile terzinato “Il balen del suo sorriso”, seppur privo della coloratura esclamativa.
Garantiti e meritati, per tutti, gli applausi al termine.

Teatro di San Carlo – Progetto Regione Lirica 2021
IL TROVATORE
Opera in quattro parti di Salvadore Cammarano
tratto dal dramma El Trovador di Antonio Garcìa Gutiérrez.
Musica di Giuseppe Verdi

Il Conte di Luna Luca Salsi
Leonora Anna Netrebko
Azucena Anita Rachvelishvili
Manrico Yusif Eyvazov
Ferrando Andrea Mastroni
Ines Vittoriana De Amicis
Ruiz Gabriele Mangione

Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Marco Armiliato
Maestro del coro José Luis Basso

Napoli, Piazza del Plebiscito, 15 luglio 2021
Esecuzione in forma di concerto

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