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Napoli, Teatro San Carlo – Il turco in Italia

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“Che bel canto! Che presenza!” esclama il principe Selim nel Finale I del dramma buffo in due atti Il turco in Italia firmato Rossini, cedendo nuovamente al fascino civettuolo e accattivante ma infedele della partenopea Fiorilla. E come dargli torto se, in palcoscenico, a dar forma e voce alla libertina moglie del buffo Don Geronio è il delizioso soprano lirico-leggero Julie Fuchs, la bella trentaseienne francese pronta a sfoderare una verve musicale luminosa e seducente per stile, espressione e sostanza, smaliziata nelle colorature laccate a smalto vivo e, perché no, una scollatura mozzafiato quale unico vezzo del suo lungo abito color corallo.
È infatti lei senz’altro, per la prima volta chiamata all’appello in cast dal Teatro San Carlo di Napoli e grazie al suo ben udibile bagaglio tecnico e culturale ritagliato fra Rameau, Mozart, belcanto e Strauss, formazione violinistica, cameristica e musicologica oltre che canora e teatrale, a garantire il colpo d’occhio e d’orecchio in primo piano sullo sfondo di un’esecuzione al netto di un contenitore scenico quanto mai invece utile per godere appieno l’opera giovanile rossiniana scritta sull’assai felice libretto del Romani, in prima scaligera nel 1814 e, nel Novecento, promossa in repertorio dalla miliare interpretazione della Callas con direzione e regia, rispettivamente, di Gavazzeni e Zeffirelli.

Opera a un passo dall’imminente e lungo ingaggio del Pesarese a Napoli, ambientata nella città del Golfo e lì tornata, dopo oltre tre lustri di assenza dai cartelloni della Fondazione ma, stavolta, via streaming (con trasmissione in differita dal 19 al 31 marzo con appena una sessantina di visualizzazioni alla “prima” dalla pagina Facebook) e, per evidente volontà oltre che per necessità, al pari delle recenti proposte liriche in mera forma di concerto. Ma, bisogna dirlo, a ricaduta dello spettacolo integro in locandina inizialmente previsto dal 13 al 26 marzo con la regia di Antonio Calenda, poi annullato per motivi pandemici. Quanto alla soluzione performativa, e anche questo va detto, si è scelta una forma stralciata solo per numeri chiusi, cassando intere scene (ma anche l’aria 11 bis di Geronio, la n. 12 di Albazar), con buona pace dei divertenti quanto necessari snodi narrativi, metateatrali e di conversazione in recitativo semplice. Neanche troppo lunghi e tediosi, in verità, eppure tagliati e saltati a piè pari.

Dunque, dopo Il pirata di Bellini, ancora un titolo tenuto a battesimo nel tempio lirico milanese ma almeno, e non solo per trama, ben agganciato ai luoghi di Partenope data la ripresa, innanzitutto, della tradizione librettistica dei vari Trinchera, Cerlone, Lorenzi e dei due Palomba nella vincente combinazione di esotismo (sia turco che zingaresco) e schermaglie amorose, tradimenti e travestimenti di ruolo o in maschera, gelosie, rivalità e zuffe fra donne, con il tipico raggiro del basso buffo eventualmente caricato ma rilanciando, in particolare, la figura della donna emancipata (“Non si dà follia maggiore / dell’amare un solo oggetto” canta Fiorilla al suo esordio, ammogliata com’è al babbeo Geronio, già amante del geloso cicisbeo Narciso quindi ora attratta dalla novità del turco Selim, approdato di fresco su una spiaggia del litorale partenopeo), nonché la presenza metateatrale del Poeta (Prosdocimo) che da par suo, in bilico e a specchio fra prospettiva interna ed esterna, ricava ingredienti e architettura perfetti per una nuova trama buffa. Il tutto riprendendo, intanto, due chiare fonti precedenti: l’omonimo Turco in Italia di Caterino Mazzolà per la musica di Franz Seydelmann (al Kleines Kurfürstliches Theater di Dresda, nel 1788) che è il reimpasto, a sua volta, di un dramma giocoso anonimo tuttavia attribuibile allo stesso librettista utilizzato da Mozart per la sua metastasiana Clemenza e da Salieri per la sua Scuola de’ gelosi, con titolo Il bon ton vinto dal buon senso (al San Moisè di Venezia, nel Carnevale 1780) per la musica del buon Joseph Schuster.
Garantita ovviamente al termine, sempre non tradendo le tirate drammaturgico-musicali alla Paisiello e alla Mozart, la ricomposizione delle coppie (Geronio/Fiorilla, Selim e l’ex schiava a lui promessa sposa Zaida, condannata a morte per gelosia ma fuggita grazie all’aiuto del confidente Albazar, quindi finita guarda caso proprio a Napoli sotto le mentite spoglie di una zingara), con relativo lieto finale e contentino del “Tutti” intonato a sigillo, significativamente, sull’ostentata rarità dei senari: “Restate contenti: / felici vivete, / e a tutti apprendete / che lieve è l’error, / se sorge da quello, / più bello l’amor”.

Probabilmente in un’ottica coerente con il taglio “da concerto”, ossia individuando nella leva strumentale la cifra più idonea all’infilata “da gala” dei numeri lirici e virtuosi, la direzione musicale di Orchestra e Coro del San Carlo affidata per la prima volta al toscano Carlo Montanaro ha optato per tinte e contrasti più raffinati che briosi e scoppiettanti, polarizzandosi sulla pressione cinetica delle strette e, in special modo, sul rimbalzo dinamico e serrato interno ai molteplici pezzi d’assieme propri, d’altronde, del genere buffo secondo il calco maturato entro i modelli napoletani dell’ultimo Settecento e la costruzione paisielliana a catena, poi perfezionata nel primo Ottocento in pannelli (si pensi già soltanto all’Elisir d’amore) dal tandem Romani-Donizetti. Con il risultato di scoprire, come in controluce e in ulteriore esposizione, alcuni divari, quali la migliore prestazione di tre sulle cinque voci maschili in campo, le ombre o le luci in orchestra, i pregi e i difetti del Coro della Fondazione preparato da Gea Garatti Ansini. Una direzione musicale nel complesso assai elegante ma a doppio taglio, quella cesellata da Montanaro, che ha molto lavorato e con buona risposta sui livelli a contrasto metrico, timbrico e dinamico, sullo scatto ritmico degli archi, sulla tinta dei legni acuti, sulla spinta esotica di fiati e percussioni, sulle dorsali armoniche e, in particolare, sulle velature in minore. Nell’insieme, ben sostenendo le voci ma, talvolta, non traendo i debiti rilievi e apporti, ad esempio, nei soli degli ottoni o dallo sfibrato coro delle zingarelle, laddove la sezione maschile continua a restare la più convincente.

Quanto alle voci soliste parate dinanzi all’orchestra e al proscenio, in ordine di merito si premia innanzitutto e come accennato la magnifica Fiorilla di Julie Fuchs, in presentazione affettiva disinibita e diretta stando alla citata sua Cavatina di esordio (Non si dà follia maggiore […] / Sempre un sol fior non amano / l’ape, l’auretta, il rio; / di genio e cor volubile / amar così vogl’io / voglio cangiar così) scandita da una mobilità ritmico-versale non dissimile da quanto intonato da Arasse nel Siroe o, a venire, dal Duca di Mantova nella sua Canzonaccia. È infatti già da qui che la sua Fiorilla affila le migliori armi di seduzione e del belcanto, proiettandone ogni dettaglio con sicurezza di carattere, tinta e intonazione. Gli esiti, da subito a segno, seducono in via crescente per l’intelligente dizione e la spiccata plasticità teatrale, per il suo volare con agio e fresche agilità entro e oltre il pentagramma fra capricci canori e trillati melodiosi, un’infinita varietà di accenti, dolci smorzati, leggiadri arabeschi e divertiti picchettati. Quindi duettando e duellando con disinvoltura nei pezzi d’assieme (esemplari sia il Duetto n. 6 con il marito che il confronto con Selim al n. 10) e fino a toccare per afflato e nuances i vertici nella Cavatina con Coro “Se il zefiro si posa” (II.4) o del serio nella sua Grande scena al n. 15, fra una stentorea declamazione della lettera, l’intenso recitativo accompagnato e l’aria “Squallida veste, e bruna” scontornata ad arte fra puntature e dinamiche.

Ottima forma (migliori gli esiti ad esempio rispetto al pur apprezzato Almaviva del recente Barbiere capitolino) e pari novità sulle assi sancarliane vanta pure il Narciso del russo Ruzil Gatin, tenore di grazia per tempra e luce degli acuti in falsettone ben rispondente alla peculiarità del contraltino rossiniano, eccellente nel gestire fiati e asperità tecniche, nel fraseggiare galante e intensamente poetico, fino a brillare in un immenso e perfetto re acuto sulla “vendetta” dal cuore della sua Aria “Tu seconda il mio disegno”, al n. 11.
Di segno opposto quanto in via analoga efficace nel ruolo buffo del tradito Don Geronio, il basso-baritono Paolo Bordogna garantisce al suo personaggio un corpo di voce sontuoso e un sillabato pregnante, inizialmente un po’ monolitico nella Cavatina d’esordio (Vado in cerca d’una Zingara / che mi sappia astrologar) in cui tenta un rimedio per “sanar” il cervello della moglie, quindi esce a testa più che alta dall’impervia tenzone sentimentale e linguistica con il rivale Selim nel Duetto al n. 8, così come negli altri spettacolari vortici in assieme. Particolarmente interessante il Poeta del baritono Alessandro Luongo, di buon volume e sempre molto attento alla cura del rapporto fra il testo e musica; brava pur se non particolarmente sonora la Zaida del mezzosoprano Gaia Petrone, tecnicamente solido ma alquanto rigido nell’articolazione del suo canto il Selim del basso croato Marko Mimica. Per nulla convincente fra timbro e disomogeneità di emissione, infine, l’Albazar del tenore Filippo Adami.

Teatro San Carlo
IL TURCO IN ITALIA
Opera buffa in due atti
Libretto di Felice Romani
Musica di Gioachino Rossini

Selim Marko Mimica
Donna Fiorilla Julie Fuchs*
Don Narciso Ruzil Gatin*
Don Geronio Paolo Bordogna
Prosdocimo Alessandro Luongo
Zaida Gaia Petrone
Albazar Filippo Adami

Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Produzione del Teatro di San Carlo
Direttore Carlo Montanaro*
Maestro del coro Gea Garatti Ansini
*per la prima volta al Teatro di San Carlo
Registrato dal vivo il 27 febbraio
Disponibile in streaming su Mymovies  fino al 31 marzo

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