Credo che l’esempio dell’Opéra di Monte-Carlo sia unico e ammirevole. Il suo direttore, Jean-Louis Grinda, che da subito non ha nascosto (come dargli torto?) una certa ritrosia per gli spettacoli d’opera in streaming, si è adoperato perché il Principato di Monaco garantisse al teatro tutte le condizioni per una ripartenza in sicurezza. Se la stagione passata si era interrotta a marzo, quella in corso, davvero bellissima (qui il link), inauguratasi lo scorso novembre con Carmen e proseguita a dicembre con I due Foscari (in forma di concerto e niente meno che con Placido Domingo, Anna Pirozzi e Francesco Meli), procede ora in presenza e con tanto di pubblico. Certo, per chi vive fuori dal piccolo perimetro del Principato o viene dall’estero, raggiungerlo non è cosa facile, ma appena si arriva sul posto si ha la sensazione che tutto sia stato predisposto a favore della sicurezza, garantita anche attraverso il marchio “Monaco Safe”, una sorta di certificazione che ha garantito a tutte le manifestazioni monegasche che l’hanno ottenuto, di agire in serenità attraverso un controllo sanitario costante e certosino. Insomma, il Principato, che come sempre a livello organizzativo brilla di luce propria, ha aperto il nuovo anno con un recital del tenore Javier Camarena, mentre ora vanno in scena le quattro recite previste del nuovo allestimento di Thaïs di Massenet, tutte anticipate alle ore 14 del pomeriggio per motivi legati alla pandemia.
Thaïs è un’opera della piena maturità, ma non fra quelle del compositore francese che videro la luce sul palcoscenico della Salle Garnier, come Le Jongleur de Notre-Dame, Chérubin, Thérèse e Don Quichotte. Per di più mancava dalle scene monegasche dal 1951, quando a programmarla fu ancora il leggendario Raoul Gunbourg, alla sua ultima stagione firmata dopo ben cinquantatré anni alla guida del teatro, che affidò la parte della protagonista a Denise Duval. Un ritorno quindi significativo, sia per la storia del teatro, da sempre legato a Massenet, sia per la qualità di una produzione di altissimo livello, in coproduzione con l’Opera di Hong Kong, con un cast stellare.
Cogliere lo spirito di Thaïs non è facile e per la riuscita dell’opera è necessaria una protagonista di grande fascino, capace di evocare i fasti della prima interprete del ruolo, quella Sybil Sanderson che per avvenenza fisica e estensione vocale faceva impazzire il pubblico della Parigi di fine Ottocento e, per Massenet, era già stata protagonista di Esclarmonde; quindi maga incantatrice e ora, in Thaïs, cortigiana che con la sua lussuria corrompe i cittadini di Alessandria d’Egitto. L’ambientazione dell’opera è dunque esotica, ma non più magica. L’esotismo lussureggiante cambia registro, non è più quello di un Oriente visto dalla lente d’ingrandimento delle turcherie settecentesche, o idealizzato dalla sensibilità romantica; viene calato in una dimensione espressiva di tormento e estasi, di contrasto dialettico accentuatissimo fra vizio e ascesi. Ben lo sapeva Massenet, che quando compose l’opera, il cui libretto di Louis Gallet è tratto dall’omonimo romanzo di Anatole France, era consapevole degli echi simbolisti che si insinuavano in una partitura dove il lirismo massenetiano, pur risentendo delle influenze di Fauré e Debussy e dei richiami al senso di disfacimento che la rende così misteriosamente enigmatica, manteneva vivo il sinuoso languore che avvolge la vicenda di questa cortigiana votata alla sensualità e convertita da un monaco che finisce per farsi coinvolgere dal suo fascino fino a perdere il proprio cammino di fede. La donna perduta (la bella cortigiana Thaïs) si trasforma dunque in anima redenta che scopre l’amore divino, mentre il puro, l’incorruttibile salvatore di anime (il cenobita Athanaël che la conduce sulla via della salvezza ma resta attratto da lei), deve ammettere la propria sconfitta dinanzi all’inevitabile richiamo dei sensi. In questa oasi dove convivino voluttà ed estasi si muove una partitura raffinatissima, nella quale si assiste alla progressiva redenzione di una ammaliatrice che appare più interiore che spirituale. Thaïs, da volubile eroina del piacere, consapevole dei poteri della bellezza, si converte alle ragioni dello spirito divenendo donna quasi angelicata. Eppure il lirismo di questa partitura non ha nulla di mollemente compiaciuto, non è mieloso nel richiamare l’esotismo e i piaceri dei sensi da purgare con la medicina dello spirito, risente piuttosto di quel clima decadente che Massenet non riesce ancora del tutto a sentire, rimanendo fedele a se stesso, alla sua vocazione per un inebriante melodismo, toccato ma non ancora conquistato dal simbolismo. La stessa conversione, descritta in musica da quella magnifica pagina che è la méditation, il cui tema, affidato al violino e all’arpa e a un coro a bocca chiusa che offre un eco crepuscolare alla pagina, viene ripreso come motivo conduttore di redenzione, svela come questo viaggio spirituale alla ricerca della propria interiorità debba essere raggiunto non senza il sacrificio di qualcuno.
Il senso dell’arcano, le ombre e le luci notturne riflesse da specchi che attraversano questo percorso dell’anima fra peccato e redenzione, in un involucro di estenuata malinconia molto fin de siècle, vengono colte in maniera mirabile dall’allestimento firmato da Jean-Louis Grinda: tutto pare nascere dalle pieghe della musica, dalle sue atmosfere e dai climi rarefatti, svelando anche un’originale e personale visione dell’opera. Nasce così uno spettacolo di stupefacente bellezza, forse il più riuscito fra i tanti da lui proposti all’Opéra di Monte-Carlo. E dire che se ne erano già visti di belli, come L’Enfant et les sortilègs, Samson et Dalila, Tannhäuser (nella versione francese) e Lucia di Lammermoor. Ma questo li batte tutti. Grinda è sostenuto dal suo abituale team artistico, composto da Laurent Castaingt per scene e luci, Jorge Jara per i preziosi costumi e Gabriel Grinda per proiezioni e video di pregnanza simbolica. In un gioco di chiaroscuri di magica evidenza onirica, la regia racconta questa storia di estasi dei sensi e purificazione dello spirito immergendola in uno scuro scrigno nero e argenteo, talvolta misterioso, sbalzando i personaggi con una regia attenta al loro sentire autentico, senza rendere troppo schiacciante il richiamo alla carne, né tanto meno accentuato quello legato alle ragioni dello spirito.
Lo spettacolo riserva momenti di assoluta magia visiva ispirandosi alle opere del pittore e incisore francese Pierre Soulages, ancora vivente e ultracentenario, noto per l’utilizzo dei contrasti fra il colore nero e la luce. Nero è infatti l’impianto scenico fisso modulabile, fra scure pareti che sembrano di lava quando mostrano la caverna che offre rifugio ai cenobiti e ariosi ambienti di una Alessandria tutta in nero lucido con intagli illuminati da riflessi doro e d’argento. Qui, in mezzo alla popolazione in preziosissimi abiti multicolore che, per lo stile, mostrano richiami alla Belle Époque, arriva accompagnata da una scintillante fanfara la cortigiana Thaïs in uno splendido abito turchese con maschera sul viso e copricapo che pare una piuma bagnata nell’argento, tempestata di perle e diamanti. C’è poi l’alcova della seduttrice, fatta con tendaggi illuminati da diverse sfumature coloristiche e specchi che rivelano angolature prospettiche o sui quali vengono proiettati i video che ritraggono Thaïs in tutta la sua bellezza, oppure accompagnano simbolicamente la sua transizione spirituale con la pulizia dell’acqua purificatrice che scorre da un piatto a coppa sulle sue mani. Un capolavoro è poi il divertissement del secondo atto, nel suo profluvio di riflessi argentei, sfumature in bianco e nero e raffinate coreografie di Eugénie Andrin, queste ultime una vera delizia per grazia e fantasia nel richiamare il senso di bellezza ammaliatrice destata con eleganza senza pari dal seguito del filosofo Nicias. E quando uno specchio si volge verso la sala, riflettendo gli stucchi dorati della Salle Garnier illuminati in penombra dalle mezze luci, è come se fossimo catturati dallo splendore! Ma il vero colpo di scena, in questo spettacolo figurativamente così fascinoso e sofisticato, viene da una regia che non vede in Athanaël un uomo di fede autentica che vuole portare Thaïs sulla giusta via, bensì un intransigente fanatico religioso che si mortifica flagellandosi e punisce la stessa donna che intende redimere soffocandola col suo bastone pastorale, come se ci volesse un sacrificio perché il suo spirito possa essere purificato dalla vanità dei piaceri sensuali. Ecco perché la méditation, che a palcoscenico chiuso dovrebbe descrivere con sola musica la conversione di Thaïs, viene invece eseguita a scena aperta e, mentre la donna è sprofondata in un’assorta meditazione nel suo letto, viene uccisa dal cenobita, poi disperato per il gesto compiuto. Da quel momento Thaïs diviene puro spirito che come fantasma appare ad Athanaël, al quale non resta che il cadavere della donna che accompagna la sua dannazione.
La stessa ricerca di chiaroscuri adatti a un esotismo che nella delicatezza e nel garbo tratteggiano il lirismo massenetiano, rendendolo sinuoso ma non privo d’incisività nelle danze del secondo atto, trovano nella bacchetta di Jean-Yves Ossonce sensibilità, pulizia di suono e equilibrio nel dare, quando occorre, denso respiro onirico alle emozioni di un dramma che si carica di potenza sonora e ottiene, nella sostanziale trasparenza della scrittura, l’ideale epifania dello spirito alla quale l’opera anela. Così avviene nella celebre méditation, nei preludi e nelle scene dove la lotta fra estasi spirituale e disperata bramosia trovano compimento espressivo compiuto, fra lunari abbandoni e oasi musicali di ammaliante malia strumentale, anelante alla tranquillità della mente e dei sensi. Orchestra e Coro, quest’ultimo come sempre ben istruito da Stefano Visconti, sono in forma smagliante.
La compagnia di canto è pressoché ideale e i risultati vocali e interpretativi lo attestano. Marina Rebeka, che aveva lasciato al pubblico monegasco un ottimo ricordo di sé come Marguerite nel Faust, ora ritorna alla Salle Garnier e porta per la prima volta sulla scena una parte affrontata in forma di concerto nel 2016 a Salisburgo a fianco all’Athanaël di Placido Domingo. La voce è quella giusta per Thaïs, di soprano lirico, dai centri pieni e dagli acuti radiosi. Esegue l’”Air du miroir” con eleganza e temperamento; il timbro luminoso sa screziarsi di venature ambrate e non ha timore nell’eseguire con slancio il re sovracuto che conclude l’aria: una vera saetta, non un virtuosismo fine a se stesso, bensì una nota che diviene riflesso del malessere dell’anima di una donna timorosa che la sua immagine sfiorisca e chiede a Venere di dirle che sarà bella per sempre. Anche nel duetto finale dell’opera col baritono domina le arcate liriche della scrittura massenetiana, che spingono la voce al re sopracuto, caricandole di febbrile trasporto liberatorio, fino al lungo la in pianissimo di “Dieu!”. Ma questo non basterebbe a rendere la sua prova di classe superiore se non si aggiungesse, oltre al fascino della figura e alla giustezza del canto, l’attenzione al dettato espressivo, flessibile e pronto a piegarsi a una mezzavoce languida e dolce, sempre utilizzata in correlazione a un personaggio accarezzato dalla grazia che, anche nel portamento scenico, la rende femminilmente delicata nel porsi dinanzi a una volubile sensualità del personaggio più sognata che carnale (“Il suo amore è leggero, e fugge come un sogno” ricorda un verso dell’opera intonato da Nicias), assorta in un lirismo di purificante e mai esangue luminosità. La tenuta vocale, così difficile da mantenere integra in una parte che chiede un controllo assoluto del mezzo vocale in rapporto all’emotività del personaggio nelle sue diverse sfaccettature di donna sensuale redenta dalla grazia, la aiuta a toccare vertici esecutivi oggi difficilmente eguagliabili.
Una prova maiuscola, alla quale si affianca quella non meno efficace di Ludovic Tézier, Athanaël avvolto in una dimensione espressiva capace di afferrare, con una voce baritonale timbrata e di colore giusto per la parte, il tormento del cenobita che perde la propria fede e diviene uomo sedotto dalla bellezza fino a perdersi. Lo si ammira intonare con orgoglio il suo j’accuse alla città colpita dal vizio nell’aria “Voilà donc la terrible cité!”, dove emerge per una declamazione rotonda, perfettamente plasmata sulla parola e conforme all’austera rigidità morale della quale si fa portavoce. Anche nel canto a fior di labbro la sua nobile voce baritonale si impone nelle sfumature che danno delicato rilievo al duetto del deserto, “Baigne d’eau mes mains et mes lévres”, e alle inflessioni vocali ricercatissime che riflettono i suoi dubbi e, nel finale, donano accenti strazianti a un personaggio tratteggiato in tutta l’evoluzione psicologica che lo fa passare da intransigente asceta a uomo toccato da un’umanità ora commossa, ora carnale, di virilità delineata con signorile evidenza da Tézier.
Due protagonisti splendidi, ai quali si aggiunge Jean-François Borras, che nei panni di Nicias coglie la superficialità del filosofo che si bea della volubilità dei sensi in una corte gaudente dominata dalla più vanesia frivolezza e la fa con una voce che lo conferma fra i tenori lirici francesi migliori del momento. Il basso Philippe Kahn declina le saggie ammonizioni del vecchio cenobita Palémon contro i pericoli e le insidie del demonio con incisiva evidenza; la voce è un po’ nasale ma il fisico magro, vinto dalla stanchezza del sacrificio, rendono il personaggio perfetto. Nei panni delle due frivole schiave Crobyle e Myrtale si segnalano Cassandre Berthon e Valentine Lemercier. Completano il cast Jennifer Courcier, dalla voce fresca negli arabeschi della Charmeuse, Marie Gautrot, la badessa Albine e Vincenzo Cristofoli, Un serviteur.
Spettacolo memorabile. Gli diamo cinque stelle, ma ne meriterebbe almeno il doppio.
Salle Garnier, Opéra di Monte-Carlo – Stagione 2020/21
THAÏS
“Comédie lyrique” in tre atti e sette quadri
Libretto di Louis Gallet dal romanzo di Anatole France
Musica Jules Massenet
Thaïs Marina Rebeka
Athanaël Ludovic Tézier
Nicias Jean-François Borras
Palémon Philippe Kahn
Albine Marie Gautrot
Crobyle Cassandre Berthon
Myrtale Valentine Lemercier
La Charmeuse Jennifer Courcier
Un serviteur Vincenzo Cristofoli
Orchestre Philharmonique de Monte-Carlo
Choeur de l’Opéra de Monte-Carlo
Direttore Jean-Yves Ossonce
Direttore del coro Stefano Visconti
Studi musicali Mathieu Pordoy
Regia Jean-Louis Grinda
Scene e luci Laurent Castaingt
Costumi Jorge Jara
Coreografie Eugénie Andrin
Video Gabriel Grinda
Assistenti alla messa in scena Vanessa d’Ayral de Sérignac,
Olga Paliakova
Assistente ai costumi Uta Baatz
Nuovo allestimento in coproduzione con l’Opera di Hong Kong
Monte-Carlo, 22 gennaio 2021