Quasi un anno or sono, a inizio marzo, le prove de Le Comte Ory di Rossini erano in fase avanzata quando l’esplosione della pandemia del Covid-19 costrinse l’Opéra di Monte-Carlo a bloccare la stagione, con la promessa però che questa produzione sarebbe stata ripresa l’anno successivo. Così è stato e nonostante i teatri di mezza Europa siano ancora chiusi o ricorrano alle più diverse forme di streaming, senza pubblico in sala, nel Principato, all’opposto, con coraggio, la stagione d’opera prosegue a porte aperte, con tutte le attenzioni del caso e col pubblico in presenza. Sul palcoscenico, poi, nessun corista porta la mascherina e gli spettacoli non risentono di alcuna mortificazione registica che li snaturi.
Un lavoro di monitoraggio continuo su coristi e maestranze per evitare la diffusione del virus e il pieno sostegno del Principato perché la cultura musicale non si fermi, stanno permettendo al teatro monegasco di proseguire con grande impegno un cartellone fra i più belli degli ultimi anni, il penultimo firmato da Jean-Louis Grinda prima di passare il timone del comando, da gennaio 2023, a Cecilia Bartoli. La diva, già da alcuni anni, è di casa a Monte-Carlo, vi ha cantato diverse opere e, dal 2016, dirige anche l’ensemble barocco, Les Musiciens du Prince-Monaco, con il quale si esibisce in molte tournée. Un sodalizio che si rinsalda di anno in anno e vede la Bartoli e la “sua” orchestra, anche con questo Comte Ory in scena in prima esecuzione sulle scene monegasche, impegnati nella ripresa dell’allestimento che Patrice Caurier e Moshe Leiser firmarono per l’Opernhaus di Zurigo ormai dieci anni or sono, ancora oggi senza nessuna ruga di stanchezza. Lo spettacolo zurighese era già stato consegnato al dvd e, rivisto nella dorata Salle Garnier, fa ancora un figurone al punto di considerarsi ormai un classico per quest’opera.
Per chi ancora non lo conoscesse, ricordiamo che la vicenda medievale del Conte Ory – che si finge eremita per portare avanti con la sua allegra brigata di amici marachelle amorose tentando di conquistare i favori della Contessa, che però gli preferisce il paggio Isoliero – viene spostata a metà degli anni Cinquanta, nella Francia allora coinvolta nella Guerra d’Algeria. Siamo al tempo di Charles de Gaulle, il cui ritratto non a caso è appeso nella sala del secondo atto, quella all’interno del castello, con un pittoresco salotto arredato con divanetti e tappezzeria a fiori rossi: il rifugio della Contessa e delle dame del suo seguito prima che l’arrivo al culmine di una burrasca della masnada di amici del Conte vestiti da suore porti scompiglio nel castello di queste pie signore che attendono il ritorno dei loro amati dal fronte (alla fine torneranno apparendo in scena tutti acciaccati). Il sipario del primo atto si apre invece con vista sulle casette di un villaggio francese dove giunge appunto il finto eremita, il Conte Ory, qui trasformato dai registi in una sorta di santone che si finge cieco; posteggia la sua roulotte e poi “cura” le signore del villaggio seducendole una ad una, anzi tutte assieme, con loro gran soddisfazione! Un quadro spassosissimo, soprattutto quando la roulotte, all’arrivo dell’inconsolabile Contessa, impacciata e sussiegosamente impettita nel preservare la propria castità finché il Conte non la invita ad aprirsi all’amore, si scoperchia e svela al suo interno, fra divani leopardati e pareti fucsia luminescenti, il piccolo santuario del piacere in cui il Conte “consola” le signore di un villaggio dove la guerra non ha tolto loro la voglia di amoreggiare e le bandiere tricolori francesi non hanno sopito lo spirito patriottico che le spinge a sperare nel ritorno dei propri mariti, pur difendendo a fatica la virtù in loro assenza.
Lo spettacolo è un orologio a meccanismo perfetto per ironia, doppi sensi, fraintendimenti erotici e sensualità spiritosissima; un ingranaggio ben oliato di teatro musicale rossiniano in salsa francese, dove la comicità s’intinge di finezze nel clima voluttuoso del terzetto del secondo atto, quello dove nel buio della notte Ory abbraccia Isolier credendo sia la Comtesse in un gioco delle parti ad alta temperatura erotica che la mano compositiva di Rossini sa rendere sottilmente sublime.
È pur vero che gli interpreti di questa edizione stanno al gioco di una regia animatissima e stracolma di idee recitando con spiritosa disinvoltura e allegria. Ovviamente Cecilia Bartoli conosce benissimo la parte della Comtesse Adèle dopo averla portata sulle scene molte volte e in questa occasione monegasca appare per di più in forma vocale e artistica splendente. La sua aria di ingresso è un capolavoro di teatro musicale. Ogni gesto, parola e espressione del viso colgono lo spirito del personaggio rendendolo scenicamente croccante e dinamicissimo. La voce poi, piaccia o meno (perché la Bartoli ha schiere di ammiratori adoranti al pari di detrattori piuttosto tranchant), è sorretta da una tecnica finissima, quella che le concede ancora oggi, dopo molti anni di carriera, di trillare, legare i suoni e giocare con la voce nel passaggio dal registro acuto al grave con quel timbro che mai si capirà se è di soprano, di mezzosoprano o di contralto. Non importa classificarla, è ben più importante annotare come lo stile rossiniano purissimo col quale varia i da capo, ricama le frasi o le accarezza inondandole di patetismo siano il risultato di un canto dove voce e teatro sembrano fondersi e divenire un tutt’uno: un prodigio di musicalità che continua a fare di lei la moderna reincarnazione di una diva dell’Ottocento. Quindi una cantante di levatura storica.
Al suo fianco, nei panni del Comte Ory, c’è un importante debutto, quello di Maxim Mironov, tenore rossiniano già affermatissimo. Anche lui, complice l’atletica presenza scenica, che ha modo di mettersi in mostra nella citata scena della seduzione del secondo atto, vince sul piano dello stile prima ancora che del risultato vocale comunque eccellente, perfettamente conforme a una vocalità attraverso la quale Rossini cambiò rotta quando cominciò a scrivere per il tenore Adolphe Nourrit. Spariva così la fitta coloratura alla quale il genio pesarese aveva sottoposto i tenori nelle opere del periodo napoletano e si apriva la strada a una vocalità assimilabile a quella del tipico haute-contre francese che declama su tessiture acute, quando addirittura non acutissime. Mironov sa benissimo che la sua voce cotonosa non può contare sullo scintillio di acuti argentei e ricorre, come per altro si racconta facesse lo stesso Nourrit, ai suoni misti. Questo fin dalla cavatina di ingresso, “Que les destins prospères”, disseminata di tratti graziosi e di una vocalizzazione leggera che chiede alla voce flessibilità plasmata sulla parola e su una declamazione calata in un contesto brillante eppure forbito. Il canto francese e i suoi modi avevano condizionato anche Rossini. Per comprendere appieno come questo stile avesse fatto breccia sul pesarese ci vuole proprio una voce come quella di Mironov, che nel secondo atto, dopo la baldoria a suon di bottiglie di vino assieme ai suoi compari vestiti da suore, intona il canto di preghiera “Toi que je révère” e, sulla parola “hospitalité”, emette un suono di testa che è l’emblema di questo stile perduto. Già solo per questo, la sua prova merita attenzione: non improntata dunque sull’atletismo vocale, quanto piuttosto sul garbo e sull’eleganza di un canto stilizzatissimo nelle sue soffici fattezze vocali e espressive.
Le sorprese non finiscono qui. Rebeca Olvera è un paggio Isolier molto limpido nella linea vocale e ben slanciato in acuto nel duetto col Comte del primo atto. Nahuel Di Pierro è un Gouverneur di gran lusso, non solo per la spiritosa caratterizzazione scenica, ma soprattutto per la bravura con la quale intona la sua difficile aria del primo atto, sfoggiando una voce di basso di timbrica nobile, con un sonoro registro grave e ottima coloratura nella cabaletta. Pietro Spagnoli, nei panni di Raimbaud, è come il buon vino, migliora col passare degli anni, sfoggiando eleganza e appropriatezza espressiva da fuoriclasse nell’esplosione vitalistica della chanson à boir del secondo atto, dove è spigliatissimo nella tiritera con la quale riferisce della sua esplorazione alle cantine del castello e della conquista delle bottiglie di vino ivi rubate. Completano il cast la spassosissima Ragonde di Liliana Nikiteanu e l’Alice di Jennifer Courcier.
Resta da riferire della direzione di Jean-Christophe Spinosi, noto barocchista, che dirige una edizione integralissima e sceglie una lettura di indubbia scorrevolezza teatrale, utilizzando dinamiche e ritmiche accentuate e ricche di contrasti. Questo finisce tuttavia per ripercuotersi non tanto sulla pulizia del suono di un’orchestra, quella con strumenti storicamente informati de Les Musiciens du Prince-Monaco, che suona davvero benissimo affiancata da un Coro dell’Opéra di Monte-Carlo, istruito da Stefano Visconti, in stato di grazia, bensì sulla trasparenza di un suono che preferisce il ritmo squadrato al sogno, l’incisività alla finezza, a scapito di un notturno che avrebbe potuto essere più delicato e trasparente nelle volute strumentali che fanno di questo terzetto un sogno erotico a occhi aperti. Successo finale festosissimo per tutti. L’Opéra di Monte-Carlo, ancora una volta, ha colpito nel segno.
Salle Garnier, Opéra di Monte-Carlo – Stagione 2020/21
LE COMTE ORY
Opera in due atti
Libretto di Eugène Scribe e Charles-Gaspard Delestre-Poirson
Musica Gioachino Rossini
Le Comte Ory Maxim Mironov
Raimbaud Pietro Spagnoli
Le Gouverneur Nahuel Di Pierro
La Comtesse Adèle Cecilia Bartoli
Ragonde Liliana Nikiteanu
Isolier Rebeca Olvera
Alice Jennifer Courcier
Les Musiciens du Prince-Monaco
Coro dell’Opéra de Monte-Carlo
Direttore Jean-Christophe Spinosi
Direttore del coro Stefano Visconti
Studi musicali Kira Parfeevets
Regia Patrice Caurier e Moshe Leiser
Scene Christian Fenouillat
Costumi Agostino Cavalca
Luci Christophe Forey
Allestimento dell’Opernhaus di Zurigo
Salle Garnier di Monte Carlo, 19 febbraio 2021