Lo spettro di Banco allunga la sua ombra. Reduce dal trionfale successo riscosso nel Macbeth che ha inaugurato la stagione scaligera lo scorso 7 dicembre, Ildar Abdrazakov è ritornato in scena per il primo dei recital di canto in cartellone alla Scala, accompagnato dalla fedelissima pianista Mzia Bachtouridze. Ed è stata subito Russia.
Ricchissimo di stimoli e di perle rare, il programma impaginato per l’occasione metteva in luce la produzione di Georgij Vasil’evič Sviridov, allievo di Šostakovič, compositore vicino all’estetica sovietica, a cui aderì senza i tentennamenti del maestro. Di gran pregio appare la raccolta Otčalivšaja Rus’ (La Russia alla deriva), un’antologia composta nel 1977 su versi di Sergej Esenin, che occupa interamente la prima parte della serata. Presenta una scrittura a un tempo spoglia e visionaria, impetuosamente profetica del baratro che stava per imboccare il Paese eppur capace di squadernare un immaginario di fortissimo impatto drammatico. Per questo perfettamente si adegua alle potenzialità dell’artista russo, che alla doviziosa materia vocale, per la quale è ormai acclamato, qui può unire uno scavo della parola, una cura minuziosa dell’accento, che condivide con la caleidoscopica tastiera di Bachtouridze. L’impianto saldamente tonale della silloge, abilmente screziato di inquietudini novecentesche, si presta a un racconto durchkomponiert che la pianista imposta senza soluzione di continuità (il primo accordo di ogni nuovo brano viene enunciato al termine di quello che lo precede), in un trascolorare di temperie espressive perfettamente restituite dalla voce di Abdrazakov. Così, ci si lascia trasportare dal tono nobilmente schubertiano di Ja pokinul rodimyj dom (Ho lasciato la mia casa natale) fino al nitore iridescente di Serebristaja doroga (O argenteo sentiero), preludio al vertice emotivo della raccolta, Otčalivšaja Rus’ e Simone, Pëtr, gde ty? (Simone, Pietro, dove sei?), in cui il vortice dissonante della prima, a immagine del tracollo della nazione, si rispecchia nel baratro evangelico della seconda: spetta all’interprete evidenziare il carattere drammatico, fin quasi shakespeariano della ricerca del primo apostolo, cui fa invece eco sgomenta il tradimento di Giuda. Pagine di fortissimo impianto teatrale, che Abdrazakov esalta grazie alla morbidezza di una cavata vellutata, sorvegliatissima, esemplare.
Modest Musorgskij è il protagonista della seconda parte della serata, ma questa volta con una scelta di pagine liberamente estrapolate da varie raccolte, alcune delle quali talmente pregnanti da scatenare l’applauso a scena aperta: sta all’artista assecondare la transizione dall’una all’altra, con una musicalità e un controllo impressionanti. Si passa dalle atmosfere di sublime rimpianto romantico del celeberrimo Čto vam slova ljubvi? (Che sono per te le parole d’amore?) al languore notturno di Želanie (Desiderio); al grottesco di K ozël (Il caprone) e soprattutto del magistrale Pesnja Mefistofelja v pogrebke Auerbacha (Canto di Mefistofele nella taverna di Auerbach), la celeberrima Canzone della pulce costellata da sonore, grasse, impavide risate. Ancora, colpisce il settecentesco, ironico rigore di Klassik (Il classico), fino al travolgente Gopak in cui la voce insegue la vorticosa galoppata del pianoforte. Sono tutte gemme da cui traspare non soltanto la rigogliosa maturità espressiva del cantante, ma soprattutto un’adesione alla prosodia musicale che traduce un pensiero musicale sempre mobilissimo, limpido, accattivante.
Quanto sopra costituiva, naturalmente, il preludio al gran finale, ossia la grande Scena della morte di Boris Godunov, quasi un’anteprima sul prossimo, attesissimo Sant’Ambrogio. Dello zar russo Abdrazakov è interprete di riferimento: lo testimonia nuovamente per la grandiosità dell’interpretazione, ma anche per la scelta di risolvere tutto nella dimensione del canto, scevra da gigionerie teatrali, parlati, tutta quella ‘tradizione’ che ha caricato questa pagina di una sua indubbia tragicità, ma a scapito della musica. Qui invece si fa strada un canto scabro, asciutto, scavato sulla parola – meglio, su un pianoforte che, grazie a una straordinaria Bachtouridze diventa sintesi del mondo: si ascoltino su tutto le campane, che lacerano il silenzio. Boris acquista una forza titanica e allucinata, una tensione tutta in purezza (priva com’è della dimensione scenica) nella nobile affettuosità dell’addio a Fëdor e Ksenija, che non si scioglie neanche dopo gli ultimi rintocchi. Un’interpretazione magistrale, attanagliante, intensa.
Che naturalmente scatena l’entusiasmo del pubblico: compiaciuto, il basso si concede agli applausi e a una sequela di bis che – unico bemolle della serata – avrebbero potuto esser forse selezionati con maggiore accortezza. Si ricomincia con l’entusiasmo fin de siècle di Vessenije vody (Acque di primavera), op. 14 n. 11, di Sergej Rachmaninov, per proseguire poi con un’autentica trina di commoventi pianissimo, il nono dei Dodici canti persiani di Anton Rubinštejn. Poi è la volta del grande melodramma italiano: con la sortita di Silva dall’Ernani di Verdi («Infelice! e tuo credevi»), con tanto di recitativo («Che mai vegg’io!») che ne scolpisce l’imperiosità degli accenti; e la grande aria di Basilio dal Barbiere di Siviglia, «La calunnia è un venticello», autentica esplosione di potenza vocale, incontenibile vitalità, impetuosa energia.
Teatro alla Scala – Stagione 2021/22
RECITAL DI CANTO
Musiche di Georgij Vasil’evič Sviridov, Modest Petrovič Musorgskij
Ildar Abdrazakov, basso
Mzia Bachtouridze, pianista
Milano, 20 dicembre 2021