Questa volta non ci sono stati cambi di programma. La Royal Opera House ha veramente riaperto al pubblico il 17 di maggio scorso, anche se a capacità ridotta e con le limitazioni evidenti dovute alla pandemia e ad un budget sofferente, dopo un lungo fermo di quasi 14 mesi. Il titolo prescelto per la ripresa delle attività operistiche, in una mini stagione primaverile/estiva che farà da ponte verso la stagione vera e propria in programma da settembre, è La clemenza di Tito di Mozart. Un titolo serio quindi, ma dove il lieto fine è già svelato nel titolo stesso. Connessi all’Opera ha seguito lo streaming del 21 maggio, ora acquistabile sulla piattaforma digitale del teatro. Un felice ritorno per l‘arte dal vivo ma al contempo una ripartenza che lascia un po’ di amaro in bocca, complici alcune scelte registiche discutibili e un cast non perfettamente assortito. Tuttavia, una manciata di cantanti giovani di talento e un’esecuzione musicale soddisfacente salvano comunque la produzione, anche se rimane un po’ il rimpianto di quello che sarebbe potuto essere, dal momento che il minimal in tempi di ristrettezze non è necessariamente malvagio, se fatto con gusto e intelligenza.
Per questa nuova produzione firmata da Richard Jones, l’azione viene trasposta dalla Roma imperiale di Tito Vespasiano a una Roma post bellica della prima metà del Novecento. In realtà è una Roma non Roma, una sorta di universo parallelo dai richiami diversi e alquanto confusi. Le scene (bruttine) e i costumi (goffi e improbabili) sono di Ultz. Per estetica, la messa in scena sembra più ricordare una repubblica socialista dell’Est Europa. Di “romano” – se così di può dire – solo qualche elemento scenico classicista (più neoclassicista per la verità) come un immancabile colonnato, dei portoni bianchi e un ingresso patrizio. Abbondano poi gli stereotipi: dei ragazzotti (tra cui Sesto in pantaloncini, anfibi e calzettoni) giocano a calcio durante la sinfonia con una mega porta da calcio su cui nel secondo atto verrà interrotta l’impiccagione del traditore Sesto; Servilia lavora in una bottega alimentare con scorte di pasta e pomodori in bella vista; altri ragazzotti loschi con basco in testa vagano qua e là; dei graffitari (congiurati vestiti da tifosi stile hooligan o curva sud) lasciano sui muri delle scritte bianche con dei modi di dire popolari (“Belle parole non pascon i gatti” e “Moglie e buoi dei paese tuoi” nel primo atto; “La troppa bonezza finisce in monnezza” nel secondo atto, una sorta di amara presa di coscienza per Tito – una volta che si è consumato il tradimento – tanto che lo stesso cerca di cancellare rabbiosamente la scritta dal muro). Per il resto troviamo ambienti comunicanti asettici dai toni verdi e metallici. Prevale l’oscurità (più che Roma sembrerebbe una Londra post bellica e il fuoco del Campidoglio sembra più una nebbia anni ‘50) al netto delle solite illuminazioni bianche, così gettonate di recente (le luci sono di Adam Silverman), anche se ci sono degli scorci e ombre più interessanti, soprattutto quando gli elementi classici vengono portati in scena. I senatori e il prefetto del pretorio Publio, che si aggirano per tutta la durata dell’opera, sono i veri occhi esterni dell’azione narrativa, il che aggiunge un elemento di inquietudine. Non è tutto da buttare e si vede comunque che per alcuni personaggi è stato fatto un lavoro di scavo. Ad esempio i confronti tra Sesto e Tito risultano efficacemente drammatici, ma tante altre scelte sono francamente gratuite, come la corsa finale di Tito per il palco come se avesse fatto goal. Al netto di tutte le numerose critiche di cui sopra, dall’altro lato la produzione ha il vantaggio di non essere impolverata, noiosa o troppo astratta e immobile.
La Clemenza di Tito, composta da Mozart nel 1791 (anno della sua morte) come opera seria-celebrativa per l’incoronazione di Leopoldo II a re di Boemia è un titolo che fin dal debutto non è stato proprio popolarissimo. È stato così dalla prima rappresentazione, quando si ritiene che la moglie di Leopoldo II avesse parlato a caldo di “porcheria tedesca” e un cronista di corte avesse riferito di uno spettacolo tedioso. Verrebbe da dire esattamente lo stesso dopo aver assistito a una produzione del genere, che di certo non aiuta a rimuovere quei giudizi storici. Ma per fortuna, come detto, rimane la musica nella sua bellezza e profondità, e qui le cose vanno decisamente meglio.
Nel ruolo del titolo troviamo il tenore lituano Edgaras Montvidas. Il suo è un personaggio ambivalente che oscilla tra narcisismo, tormento ed incredulità. Montvidas è obiettivamente bravo a giocare con la voce in tutti i suoi effetti, tra mezzevoci, smorzature e pianissimi, anche se talvolta sfocia nello svenevole. Perfettibili le agilità (come in “Se all’impero, amici dei”). Per il resto ha una bella presenza ed è abbastanza omogeneo nel suo canto. Vestito in una triste uniforme nera che rimuove ogni grandiosità al personaggio, Tito viene anche privato della sua entrata in grande spolvero nel primo atto.
Il mezzo canadese Emily D’Angelo, che della Clemenza è stata anche un Annio delizioso al MET, approda ora a Sesto, reggendo la prova molto bene, sia per tenuta che per interpretazione. Il suo è un Sesto androgino in pantaloncini (portando all’estremo il concetto di trouser role) che ben coglie la lotta interiore del personaggio. Ha una bella pasta di voce, dei centri pieni e una buona estensione. Le agilità sono prudenti (come in “Parto, parto, ma tu ben mio”) ma la linea di canto è ben controllata per tutta l’esecuzione. La resa drammatica non viene mai meno, senza sconfinare in eccesso anche se perfettibile è il controllo delle mezzevoci quando si lascia andare con l’interpretazione.
Nicole Chevalier è una Vitellia dalle tinte estreme. Se il primo atto inizia con una giusta teatralità, dove il personaggio appare calcolatore e risoluto, man mano il regista la spinge a una spiritata pazzia. Il ruolo, si sa, è molto ostico e tutti i nodi (vocali) vengono al pettine, a partire dall’estensione, di cui Chevalier non possiede certamente quei bassi corposi necessari per rendere al meglio la parte. I centri sono più timbrati, mentre gli acuti sono talvolta strillati o metallici. La celebre “Non più di fiori vaghe catene” comincia con espressività e controllo e sfocia invece nell’affanno vocale, con un personaggio che si dimena qua e là per il palcoscenico, dopo aver gettato a terra i fiori di una ghirlanda indossata in precedenza. Le agilità sono prudenti e la dizione decisamente perfettibile. Chevalier sa sicuramente dominare il palcoscenico quasi a farlo suo, ma l’impressione complessiva è che vi sia poca sostanza (in un ruolo che forse ne richiederebbe di più) con tante trovate ed effetti spacciati per interpretazione.
Christina Gansch è una Servilia dal timbro piacevole e dal trasporto evidente, forse più sanguigna e meno sdolcinata di altre interpreti di questo ruolo. C’è forse qualche durezza da smussare e la celebre aria “S’altro che lagrime”, pur cantata correttamente, non incanta come dovrebbe. L’Annio di Angela Brower si distingue per musicalità e fluidità del canto, evidente sia nelle arie solistiche (“Torna di Tito a lato”, “Tu fosti tradito”) che nei momenti d’insieme (delizioso il duetto con Servilia “Ah, perdona al primo affetto”). Il mezzo americano porge le frasi con gusto, ha una dizione corretta e non lascia che l’interpretazione intacchi la qualità del suo canto. Infine anche il ruolo minore di Publio, interpretato da Joshua Bloom ha modo di farsi notare grazie a una voce sonora e ben centrata.
Mark Wigglesworth dal podio, dirige con piglio deciso ottenendo dall’orchestra un’esecuzione che coniuga stile e corposità, nonostante un organico ridotto viste le restrizioni. Predilige ritmi spediti nei recitativi, anche con qualche taglio, rendendo più scorrevole l’azione. I fiati brillano per vitalità e un plauso speciale ai soli dal suono rotondo del clarinetto e corno di bassetto, in quelle parti da obbligato composte da Mozart per il suo amico e virtuoso Anton Stadler. Il coro della ROH fornisce un ottimo contributo anche se il gruppo è rilegato a cantare nel backstage con l’aiuto dei sistemi di amplificazione. D’altronde, di questi tempi, ci si arrangia come si può e tutte le soluzioni alternative sono benvenute.
Al termine, applausi che appaiano certamente non scroscianti, con qualche picco per Emily D’Angelo, Nicole Chevalier e Edgaras Montvidas.
Royal Opera House – Stagione primavera/estate 2021
LA CLEMENZA DI TITO
Dramma serio in due atti K. 621
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Libretto di Caterino Mazzolà, da Metastasio
Tito Vespasiano Edgaras Montvidas
Vitellia Nicole Chevalier
Servilia Christina Gansch
Sesto Emily D’Angelo
Annio Angela Brower
Publio Joshua Bloom
Orchestra e Coro della Royal Opera House
Direttore Mark Wigglesworth
Maestro del coro William Spaulding
Regia Richard Jones
Scene e costumi Ultz
Luci Adam Silverman
Nuova Produzione della Royal Opera House
Londra, 21 maggio 2021
Streaming acquistabile su https://stream.roh.org.uk