Doveva essere uno dei titoli di punta della stagione 2019/2020, ma poi la pandemia non ha reso possibile la sua messa in scena. La Royal Opera House ha perseverato e inserito nuovamente Jenůfa di Leóš Janáček nel cartellone della presente stagione, anche se con alcuni cambi al cast e alla direzione. Un’opera attesissima, non solo per il debutto londinese di Asmik Grigorian nel ruolo del titolo e per il ritorno della veterana Karita Mattila – che fu un’acclamata Jenůfa proprio alla ROH nel 2001 e che oggi interpreta invece la sagrestana Kostelnička – ma anche per un nuovissimo allestimento firmato da Claus Guth. Era vent’anni che il capolavoro del realismo slavo mancava in cartellone alla ROH e a giudicare dal trionfo di pubblico ottenuto a ogni recita di questa produzione, sembrerebbe esser valsa la pena di aspettare tutto questo tempo. Un successo reso possibile grazie alla perfetta sinergia tra regia, buca e palcoscenico e a un duo femminile di interpreti principali di prim’ordine.
Claus Guth lascia da parte una lettura registico-estetica prettamente realista per privilegiare invece un approccio astratto, metaforico e simbolista. Ma non si tratta di astrazione spinta agli estremi tanto da stravolgere la vicenda. Al contrario, il libretto viene rispettato e la storia rimane intellegibile. In più viene condotto uno scavo nella psicologia dei personaggi che è in linea con l’assenza di alcun giudizio morale da parte di Janáček. Si rende poi molto bene il gap generazionale e si presentano i conflitti all’interno di un contesto sociale opprimente fatto di aspettative e di regole imposte da cui è difficile districarsi. Alla fine però vi è speranza, rinascita, perdono e redenzione e il messaggio passa in maniera trasparente in questa produzione.
Grazie alle scene di Michael Levine si ricostruisce, a palcoscenico aperto, un microcosmo completamente chiuso e isolato dal resto del mondo, delimitato da mura di legno biancastre e una massiccia tenda-saracinesca che cela il palcoscenico all’inizio di ogni atto, salvo poi sollevarsi e permettere allo spettatore di essere accettato in questo microcosmo. Per i suoi abitanti invece non vi è uscita, pena l’esclusione dal sistema.
Il primo atto viene ambientato in una sorta di fabbrica-casa lavoro. Il motivo musicale incessante della ruota del mulino viene letto in chiave metaforica come meccanismo che fa funzionare un sistema basato sulle ripetizioni senza fine di una vita uniformata, basata su azioni codificate quali il lavoro, il riposo e il divertimento – una sorta di rituale fortemente codificato e strutturato. In tutto ciò Jenůfa, che di fondo aspira alla libertà, è quell’ingranaggio che potrebbe far saltare il tutto. Questo microcosmo chiuso e claustrofobico contiene tutto quello che può servire alla vita di tutti giorni ossia letti, tavoli, attrezzi per il lavoro, praticamente gli unici oggetti scenici. Il secondo atto amplifica ancora di più questo concetto di chiusura. La camera dove Kostelnička tiene reclusa Jenůfa diventa una sorta di prigione delimitata da delle reti metalliche di letti, sulle quali si poserà un corvo gigante nero, presagio inquietante dell’epilogo tragico dell’infanticidio. Altro presagio di morte è l’attraversamento in scena da parte di un bambino insanguinato. Al di fuori della prigione vediamo una serie di materassi sovrapposti con un buco al centro, quasi a ricreare quello spazio tra i ghiacci dove verrà gettato il bambino. Altro simbolismo non immediato, ma pertinente. Il terzo atto invece reintroduce una componente di realismo, ma sempre allo scopo di una riflessione sociale e psicologica, ovvero quella del ritrarre una comunità provinciale che con le sue convenzioni e ipocrisie si appresta a celebrare il matrimonio di Jenůfa e Laca in maniera del tutto codificata e indifferente. Sul palcoscenico, ricoperto di petali di fiori, viene posto un lungo tavolo, al quale siederanno gli ospiti. La scena è efficace e surreale al tempo stesso perché coglie il contrasto tra gli stati d’animo degli sposi e gli atteggiamenti incuranti del resto dei presenti.
I costumi delle danzatrici e degli ospiti alle nozze nel terzo atto, firmati da Gesine Völlm, portano tinte policrome in un allestimento fondamentalmente monocromatico dove prevale il nero, il grigio e il bianco. È questa forse l’unico nota folcloristica dal punto di vista estetico che ricorda la Moravia slovacca, mentre i primi due atti sono di collocazione più indefinita, forse a cavallo tra Ottocento e Novecento. Asmik Grigorian nel secondo atto veste semplicemente un completino da notte di seta e la memoria va subito alla sua Salome di Salisburgo. L’estetica dei costumi delle abitanti femminili della comunità sembra invece ricordare la serie The Handmaid’s Tale ma non è dato sapersi se sia un richiamo involontario o voluto. Le luci fredde di James Farncombe che creano ombre sinistre sullo sfondo nel secondo atto, così come i video di Rocafilm hanno un ruolo chiave nel condurre lo spettatore nel viaggio tra i tormenti della psiche e le visioni di Jenůfa e Kostelnička.
Una lettura registica come quella di Guth sarebbe benissimo potuta deragliare se non fosse stato per un cast fortissimo, in grado di amplificare il lavoro di caratterizzazione psicologica voluta dal regista e un’esecuzione musicale tesa e densa in grado di riflettere appieno questa visione drammaturgica. All’interno di un cast molto ben assortito, svetta la potenza magnetica del canto attoriale di Karita Mattila. Spesso siamo abituati ad ascoltare delle Kostelnička a fine carriera, quasi svociate e che puntano sulle urla come unico strumento interpretativo. Mattila gode ancora di uno strumento relativamente in buona salute. Canta in modo chiaro e la sua dizione è ben lavorata utilizzando in modo intelligente le inflessioni musicali della lingua parlata tanto care a Janáček. Riscontriamo ancora un bell’abbandono lirico e un canto ben legato. Ma soprattutto il lavoro sulla caratterizzazione è talmente ben fatto che le urla di disperazione, il parlato declamato o i suoni gutturali diventano poi solo una minima componente al servizio dell’interpretazione. Mattila, che aveva già interpretato Kostelnička in passato in maniera quasi terrificante, ripensa insieme al regista il personaggio comunicando la sua natura ambivalente e combattuta tra amore per Jenůfa e tentativo di attenersi alle convenzioni. Palpabile il senso di colpa e il tormento causato dagli abusi da lei subiti in passato. Le scena del secondo atto in cui matura la decisione di sopprimere il bambino e quella in cui viene assalita da oscuri presentimenti di morte hanno una forza incredibile. Veramente una prestazione magnetica da parte di un’artista consumata.
Asmik Grigorian, al suo debutto alla ROH, non ha deluso le aspettative, dimostrando di essere in possesso di uno strumento solido e sempre ben controllato e di essere un interprete di elevata caratura. La sua sicurezza vocale appare quasi in contrasto con una lettura del ruolo del titolo che invece comunica innocenza, fragilità e vulnerabilità, soprattutto all’inizio dell’opera. Un po’ come con Mattila, è difficile staccarle gli occhi di dosso e la sua palette di colori e intenzioni drammatiche è molto ampia. La scena del monologo e successiva preghiera nel secondo atto è uno dei momenti più riusciti. Grigorian sa anche inserirsi nei momenti d’insieme armonizzandosi con i timbri più diversi e i suoi attacchi in acuto sono sempre sicurissimi e taglienti e mai traballanti.
Due voci maschili molto diverse, ma quasi l’una il contrappeso dell’altra, sono quelle dello Števa di Saimir Pirgu e del Laca di Nicky Spence. Il primo con una voce molto ben espansa sopra l’orchestra e giustamente su di giri nella scena dell’ubriacatura, il secondo è molto duttile nel mutare resa vocale partendo dall’incontrollabile gelosia del primo atto per approdare poi sul finire al dolce trasporto e fervente amore per Jenůfa. Brillante la prestazione di un’altra veterana del palcoscenico, il mezzosoprano italiano Elena Zilio nei panni della vecchia Buryjovka, dipinta come una severa capo fabbrica, energetica e fiera dominatrice che usa la propria autorità di nonna e matriarca. Tra i personaggi minori da segnalare la Karolka vispa e schietta di Jacquelyn Stucker. Corretti gli altri interventi, compresi quelli del coro della ROH.
Henrik Nánási riesce a tirare fuori il meglio dall’orchestra della ROH. Tiene il discorso musicale teso e sontuoso a tratti, enfatizzando il carattere ostinato e in continuo movimento della musica di Janáček. L’elemento folcloristico rimane una cornice, ma neanche troppo enfatizzata. Particolarmente ben eseguiti i momenti di climax e di contrasto. Il crescendo che accompagna l’uscita di scena di Kostelnička e tutti i finali d’atto hanno una forza drammatica incredibile. Peccato che sulla scia dell’entusiasmo scatenato nel pubblico, un tentativo di applauso rovini la corona che anticipa il duetto finale del terzo atto tra Laca e Jenůfa. Veramente pregevole il solo del violino di Vasko Vassilev che accompagna il monologo e preghiera di Jenůfa nel secondo atto. Solo saltuariamente si assiste a qualche piccolo sbilanciamento di suono, anche perché la scena completamente aperta pone delle difficoltà acustiche per gli interpreti non di poco conto.
Al termine applausi incalzanti e qualche standing ovation da parte di una sala gremita, con veri boati per Karita Mattila, Asmik Grigorian e il direttore Henrik Nánási. È stata una serata intensa, una di quelle difficili da metabolizzare, ma sicuramente memorabile. La stagione della ROH è incominciata da poco, ma sicuramente ha già avuto uno dei suoi momenti più alti.
Per chi volesse vedere lo spettacolo da casa, lo streaming gratuito è offerto da Operavision su Youtube fino al 9 novembre a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=TFvD7suXk1I
Royal Opera House – Stagione d’opera e di balletto 2021/2022
JENŮFA
Opera in tre atti
Libretto e musica di Leóš Janáček
Kostelnička Buryjovka Karita Mattila
Jenůfa Asmik Grigorian
La vecchia Buryjovka Elena Zilio
Laca Klemeň Nicky Spence
Števa Buryja Saimir Pirgu
Karolka Jacquelyn Stucker
Barena April Koyejo-Audiger
Jano Yaritza Véliz
Il Sindaco Jeremy White
La moglie del Sindaco Helene Schneiderman
La zia Renata Skarelyte
Il mugnaio David Stout
Orchestra e Coro della Royal Opera House
Direttore Henrik Nánási
Maestro del coro William Spaulding
Regia Claus Guth
Scene Michael Levine
Costumi Gesine Völlm
Luci James Farncombe
Video Rocafilm
Coreografie Teresa Rotemberg
Nuova produzione della Royal Opera House
Londra, 9 ottobre 2021