Il 2 maggio 1921 Pietro Mascagni presenta al Teatro Costanzi di Roma la sua nuova opera: il soggetto è tratto da un episodio della Rivoluzione francese e il lavoro ha una presa sul pubblico talmente travolgente che sembra di essere tornati a quella sera di 31 anni prima nello stesso luogo quando avvenne la prima di Cavalleria rusticana.
Il piccolo Marat nasce in un momento complicato per l’Italia: siamo alla fine del tormentato biennio rosso, il Paese si era sentito sull’orlo della rivoluzione comunista, e Mascagni aveva ben fatto intendere da che parte stava, andando nel 1920 a visitare i Cantieri Orlando occupati dagli operai nella sua città natale. Il Popolo d’Italia di Mussolini non tardò a parlare di “Bolscevismo Mascagnano”, ma i dissapori tra le fazioni politiche, entrambe pronte ad accusare il compositore di tradimento rispetto ai propri ideali, vengono placati e pacificati dal Marat, in cui ognuno cerca di vedere una glorificazione del proprio credo politico. La vicenda del libretto di Forzano è tuttavia una semplice e forte condanna di un qualunque regime oppressivo. Mascagni non può certo parteggiare per i socialisti fino in fondo, ma non crederà mai neanche al mito fascista, arrivando a sfruttare il regime solo per lavorare e fare rappresentare la sua musica: ciò non gli impedirà una morte nell’oblio il 2 agosto 1945 con l’Italia che ancora deve fare i conti con la sua guerra civile.
Da quel momento la caduta nell’oblio di buona parte della produzione mascagnana porta persino a dubitare che Cavalleria sia veramente opera sua, dato che tutto il resto viene tuttora spesso giudicato come musica di qualità discutibile, fatta per esibire grandi voci e accontentare vecchi nostalgici. Eppure l’ascolto di un lavoro come Il piccolo Marat riserva notevoli sorprese. Ci sono alcune lungaggini magari un po’ datate in quei continui riferimenti alla mamma negli interventi del protagonista e nei duetti d’amore portati avanti fino all’inverosimile in enormi squarci melodici, ma la maggior parte della partitura è un vero laboratorio di stile ardito per l’Italia dell’epoca: troviamo giochi con le asprezze armoniche che sembrano preludere a Berg e Šostakóvič tra reminiscenze di Sibelius, il coro come elemento violento nell’azione un lustro prima di Turandot, e un personaggio come l’Orco che pare quasi diretta anticipazione del John Claggart del britteniano Billy Budd.
Sono poche le istituzioni che negli ultimi decenni hanno provato a rispolverare un titolo del genere (il festival di Wexford la propose nell’edizione 1992 e, più recentemente, è stata rappresentata in forma di concerto al Concertgebouw di Amsterdam), e al Teatro Goldoni di Livorno va l’onore di aver riservato una proposta del genere a marcare il centenario dalla prima esecuzione.
La cosa che funziona meglio in questo pugno di recite è senza dubbio il cast azzeccato. Samuele Simoncini affronta la parte tenorile del protagonista con ammirevole sicurezza. La linea è salda, la voce, dotata anche di un bel timbro, corre in teatro decisa e penetrante, sciorinando acuti e insistenze sulla zona di passaggio con decisione e facilità, e in fin dei conti il personaggio emerge anche se il tenore non è un campione di rifiniture. Valentina Boi è una Mariella giustamente remissiva, un po’ meccanica nel delineare il personaggio, ma comunque credibile. Lo strumento dal timbro scuro non ha problemi nelle salite all’acuto e si trova perfettamente a suo agio nella scrittura di tal ruolo.
Andrea Silvestrelli delinea l’interessantissimo personaggio dell’Orco con una voce non più al culmine delle possibilità, per quanto ancora ragguardevole per volume e tenuta, ma con una notevole cura del fraseggio e dell’espressione, tanto che alla fine risulta anche il più convincente sulla scena. Anche Alberto Mastromarino non è più freschissimo, ma sa comunque tirare fuori dal ruolo del Carpentiere la sua umanità e a dargli un giusto risalto scenico. Stupisce per lo strumento il soldato di Stefano Marchisio: limpido, svettante, di bel colore, non ha problemi a tenere testa agli altri protagonisti e a ritagliarsi un buon successo personale. Nello stuolo di comprimari meritano di essere segnalati Silvia Pantani nel breve ruolo della Madre, e i tre affiatati scagnozzi di Alessandro Martinello (la spia), Pedro Carrillo (il ladro) e Michele Pierleoni (la Tigre).
Se titoli del genere si risolvessero solo con le voci, come molti ancora credono, la presente edizione livornese avrebbe centrato il punto. Peccato che rimanga un senso di insoddisfazione dato dai due elementi del teatro mascagnano che oggi meritano davvero di essere messi in risalto.
Il primo è la direzione d’orchestra. Mario Menicagli dirige tutto sommato bene, sa sostenere i cantanti, e guida una Orchestra della Toscana compatta e dal bel suono. Manca tuttavia un vero respiro teatrale, una maggiore attenzione al dettaglio per far emergere le vere componenti di novità di una tale partitura in relazione alla produzione europea del periodo. Manca insomma un minimo di mediazione intellettuale per apprezzare al meglio tale musica. Aggiungiamo poi che in un’opera dove il coro ha molta importanza, specialmente al primo atto, ci vorrebbe una compagine più rodata e sicura di quella qui impegnata, che non si distingue per spigliatezza scenica, ma giusto per un discreto colore vocale.
Ma la pecca più grande rimane l’allestimento. Sarah Schinasi sfrutta gli elementi già presenti sul palco (un ponte scenico, il finestrone sul fondo, le pareti nude), illuminandoli con fasci di luce – assai perfettibili – in modo da dare una forte idea di claustrofobia e pesantezza. Il problema è che tutto si ferma qui. Non c’è lavoro sugli interpreti, lasciati fondamentalmente a fare le solite pose stereotipate da melodramma, i passaggi orchestrali vengono spesso lasciati correre invece di essere sfruttati teatralmente, e alcune scene risultano addirittura prive di senso (nel finale il piccolo Marat vede benissimo l’Orco che si scioglie le funi in cui era stato legato: peccato che da libretto ciò non dovrebbe accadere). L’opera ha delle potenzialità molto forti da thriller psicologico, tanto che l’unica parte che funziona davvero è il momento in cui l’Orco cava l’occhio al soldato, in una scena quasi da Lear di Reimann, o da regia di Calixto Bieito. Si sarebbe potuto sfruttare questo potenziale per far capire tutta la modernità di un tale lavoro, invece si sceglie, come spesso accade in Italia con questi titoli, la via comoda del “come eravamo”, condita da un “vorrei ma non posso”. Le esperienze di questo repertorio all’estero (ormai anche i teatri di tendenza vi si stanno buttando a capofitto, dall’An der Wien all’Opera di Francoforte, all’Holland Park a Stoccolma) fanno capire che il modo per rivalutare Mascagni e la Giovane Scuola è partire proprio dalla loro essenza cinematografica e dalla forte parentela con la musica europea del periodo: le voci ci sono, basta metterle nel loro ambiente ottimale. Senza questa comprensione, ogni revival rimarrà una sorta di lettera morta.
La risposta del folto pubblico livornese della pomeridiana infatti è una roba d’altri tempi tra “Viva Mascagni” lanciati come rose, e richieste di bis del duetto del secondo atto, invero ottenuto, e alla fine vengono tributate grandi ovazioni per tutti i cantanti. Lode all’iniziativa, ma adesso portiamo anche noi la Giovine Scuola nel XXI secolo, senza lasciare tale onere e onore soltanto ai teatri esteri.
Teatro Goldoni – Stagione lirica 2021-22
IL PICCOLO MARAT
Dramma lirico in tre atti
su libretto di Giovacchino Forzano
Musica di Pietro Mascagni
L’Orco Andrea Silvestrelli
Mariella Valentina Boi
Il piccolo Marat Samuele Simoncini
La mamma Silvia Pantani
Il soldato Stefano Marchisio
La spia Alessandro Martinello
Il ladro Pedro Carrillo
La tigre Michele Pierleoni
Il carpentiere Alberto Mastromarino
Il capitano dei marats Carlo Morini
Il portatore d’ordini Luis Javier Jiménez García
Prima voce Marco Mustaro
Seconda voce Simone Rebola
Orchestra della Toscana
Coro del Teatro Goldoni di Livorno
Direttore Mario Menicagli
Maestro del coro Maurizio Preziosi
Regia Sarah Schinasi
Scene e costumi William Orlandi
Light designer Christian Rivero
Nuovo allestimento e produzione
Fondazione Teatro Goldoni Livorno
Livorno, 12 dicembre 2021