Il Cd di esordio di George Gagnidze vede questo già affermato baritono georgiano impegnato, al culmine della maturità artistica, in un programma di note arie che spaziano da Mozart al verismo, passando per Verdi e Wagner, per approdare a Leoncavallo e Giordano. Le incisioni risalgono al 2013, ma la pubblicazione avviene solo oggi. Ad accompagnarlo è l’Orchestra Staatskapelle di Weimar, città dove ha fatto parte della compagnia stabile del Nationaltheater. Anche Berlino l’ha visto affermarsi sulle scene tedesche, ma studi e carriera cominciarono in patria, dove a Tbilisi, a ventuno anni, decise di dedicarsi al canto. Gli inizi non furono facili, perché nei primi anni Novanta la Georgia si era staccata dall’Unione Sovietica con la conseguente guerra civile; completare un corso di studi musicali non era certo un gioco da ragazzi. Tuttavia Gagnidze ci riuscì ed ebbe le prime affermazioni all’Opera di Stato Paliashvili a Tbilisi nel 1996 come Renato in Un ballo in maschera e Germont ne La traviata, parti che si unirono in seguito a molti altri titoli verdiani, come Nabucco, Macbeth e Don Carlo dai quali nel presente album si ascoltato le arie più note. Non è ancora avvenuto il desiderato debutto sulle scene come Conte di Luna nel Trovatore, dal quale però Gagnidze esegue “Il balen del suo sorriso”, mentre da Rigoletto, l’opera che segnò, insieme alla Tosca, l’acclamato esordio al Metropolitan di New York nel 2009, non sono proposti ascolti, così come Jago da Otello manca nel Cd all’appello dei grandi personaggi verdiani già divenuti suoi cavalli di battaglia.
Nei primi anni Gagnidze si era avvicinato anche a opere russe, vestendo in patria i panni del protagonista in Eugenio Onegin e del Principe Eleckij ne La dama di picche di Ciajkovskij. In Italia, nel 2005, vinse il Concorso di Voci Verdiane di Busseto e il Teatro alla Scala l’ha già ospitato in Rigoletto, La traviata, Tosca e Aida. Dalla Germania, quindi, che è la nazione che gli ha permesso il lancio sui palcoscenici internazionali, George Gagnidze si trova oggi, superata la soglia dei cinquant’anni, a esprimere il meglio di una vocalità che non si esclude possa essere imprestata anche a Wagner, che nel Cd in questione lo vede impegnato nell’aria di Wolfram da Tannhäuser, opera mai affrontata fino a oggi sulle scene, mentre a inizio carriera fu protagonista di Der fliegende Holländer.
Caratteristica comune a molti dei cantanti georgiani che sono stati toccati dal successo internazionale – si possono citare, fra le voci più note, quelle di Paata Burchuladze, Anita Rachvelishvili e Nino Machaidze – è l’ampiezza della cavata sonora, talvolta rigogliosa e torrenziale, come nel suo caso.
La prova si ha, da subito, ascoltando il Prologo da Pagliacci, seguito da “Nemico della patria” da Andrea Chénier, pagine con le quali si apre il Cd. Ci si trova dinanzi, in tempi in cui i baritoni tendono a liricizzarsi fino all’eccesso, a una voce piena, sonora, robusta e salda come una roccia anche se attraversata talvolta da venature metalliche che gli arrugginiscono l’emissione quando il canto si fa teso. Il Prologo lo vede anche attento alla ricerca dell’espressione, ma all’attacco di “Un nido di memorie” alla mezza voce manca l’involo nostalgico. È chiaro che a Gagnidze interessi presentarsi con le caratteristiche che fanno parte del classico biglietto da visita vocale del baritono vilain, di estrazione verista. Il timbro scuro, virile, l’accento infuocato da subito sorprendono, proprio in tempi in cui sfoggiare voci drammatiche e timbrate come la sua sembra, almeno ad alcuni, un peccato non veniale, ma mortale. Così, superato l’impatto indubbiamente efficace suscitato da queste prime pagine, si attendono con curiosità i successivi ascolti, per verificare se, anche in Verdi, tanta dovizia di mezzi possa piegarsi con più attenzione al dettato della parola verdiana, alle sottigliezze di un canto più morbido e meno esteriore, complice l’ottimo e attento accompagnamento della Staatskapelle Weimar, assai ben diretta da Stefan Solyom. La possibilità è da subito offerta dall’aria di Germont. Qui Gagnidze non tradisce se stesso e mantiene fede a una caratura vocale ricca e rigogliosa. Non si accontenta tuttavia di questo, prova a fraseggiare, colorare le frasi e a sfumare l’emissione: smorza il canto su “Dio mi guidò!” e dona accenti dolenti alla ripresa della seconda strofa regalando un “tu non sai quanto soffri” che mostra come il gusto del canto moderno e il modo di eseguire Verdi secondo dettami più rifiniti in senso espressivo abbiano fatto breccia anche in vocalità robuste come la sua.
Quindi se, di primo acchito, si sarebbe portati a equiparare il suo eseguire Verdi al ricordo di come era in uso fare negli anni Cinquanta, con tutti i pro e i contro del caso, ci si rende invece conto che in Gagnidze vivano valori aggiunti capaci di andare ben al di là di un patrimonio vocale che sorprende soprattutto per la ricchezza dello strumento, a tratti insolente, da mattatore dell’ugola baritonale pronta a incarnare il prototipo del baritono bieco e cattivo, del perenne antagonista. La volontà di sfoderare l’impeto declamatorio, riflesso di un canto più vilain che nobile, più aggressivo che elegante, è sempre dietro l’angolo, ma l’impegno espressivo non può essere disconosciuto nel valersi delle stesse buone intenzioni che, anche nella morte di Rodrigo da Don Carlo, vedono Gagnidze imporsi in lunghe frasi legate, dove riesce a mettere in luce un ottimo controllo dei fiati seppure la voce non trovi terreno fertile nell’ammorbidire i suoni con accenti più accorati e commossi, da baritono grand-seigneur, delle quali caratteristiche vocali Gagnidze non possiede la naturale predisposizione perché la lezione ottocentesca ha ceduto in lui il passo a quella verista, anche se il gusto si è affinato e lo trova quindi sempre pronto a regalare un canto più moderno e attento ai segni d’espressione.
Così avviene anche quando, alle prese con la temibile tessitura dell’aria del Conte di Luna dal Trovatore, Gagnidze, pur controllandosi quanto più gli è possibile, si abbandona alla sostanziale vigoria del suono e ascoltando l’acuto della “tempesta” pare di trovarsi dinanzi a un baritono d’altri tempi, che per di più possiede una invidiabile fermezza di suono. Le arie da Macbeth, Nabucco e Un ballo in maschera gli offrono terreno fertile per mettere in mostra la ricchezza del suo autentico timbro baritonale, con l’impegno nel rendere il canto non solo esibizione di voce ma anche riflesso di meditata riflessione espressiva. La volontà di rompere gli argini per far scorrere il fiume in piena di una voce tanto ricca è sempre dietro l’angolo. Eppure il baritono georgiano tenta di raccogliere il suono, di dare senso compiuto a ciò che canta, ma è chiaro che il vigore, il compiacersi in quel cantare largo, spazioso, a tratti sprezzante, facciano parte del meglio di una vocalità non sempre morbida ma fra le più ricche e solide esistenti oggi per questo repertorio.
Non è casuale che si sia avvicinato anche a Wagner, che qui accosta però con un’aria, quella di Wolfram, nella quale, al di là della bellezza del suono, non si coglie l’incanto magico nell’invocazione alla stella della sera attraverso un canto che dovrebbe volare, soffice come una piuma, sulle sfere di un’eleganza alla quale Gagnidze antepone lo sfoggio della sua voce timbrata. Comunque lo si ascolta volentieri, anche quando regala, come bonus track finale, un brindisi dal Don Giovanni che farà, c’è da esserne certi, arricciare il naso a molti. Va però detto che a forza di arricciare il naso, spesso alla ricerca di non si sa poi bene cosa, si stanno perdendo i valori del vero canto, quelli che a suo modo, con un controllo dell’emissione sicuro su tutta la gamma, Gagnidze possiede mostrandosi, in termini puramente vocali, non inferiore a gran parte dei baritoni di oggi, italiani e forse non solo. Se poi si continuerà a estremizzare la convinzione che Dietrich Fischer-Dieskau risolvesse Verdi meglio di come lo cantassero Ettore Bastianini o Piero Cappuccilli – ignorando quanta importanza abbiano, oltre al rispetto dei segni d’espressione, anche colore, calore, espansione del suono e accento – la vocalità verdiana potrebbe perdere importanti tasselli che fanno parte della sua essenza o, se volete, del rilevante patrimonio storico che l’ha per lungo tempo caratterizzata. Dinanzi all’opulenza vocale di Gagnidze, alla quale non si è più abituati, non ci si può dunque che levare rispettosamente il cappello.
GEORGE GAGNIDZE
Pagine da Pagliacci, Andrea Chénier,
La traviata, Macbeth, Nabucco,
Il trovatore, Un ballo in maschera, Don Carlo,
Tannhäuser, Don Giovanni
George Gagnidze, baritono
Stefan Solyom, direttore
Staatskapelle Weimar
Etichetta: Orfeo
Formato: CD
Registrazioni effettuate a Weimar, Weimarhalle nel 2013