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Firenze, Teatro del Maggio – Siberia

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Con la cancellazione del previsto Don Giovanni diretto da Muti, l’83° Festival del Maggio Musicale Fiorentino inauguratosi a fine aprile con Adriana Lecouvreur volge al termine e chiude il cerchio proponendo la prima fiorentina di Siberia di Umberto Giordano, un altro titolo della cosiddetta Giovane Scuola assai meno frequentato dell’opera di Cilea.
Siberia, che ebbe la sua prima alla Scala il 19 dicembre 1903 sotto la bacchetta di Cleofonte Campanini e con un cast dominato da Rosina Storchio, fa parte di un filone russo che nell’opera italiana prende piede negli ultimi anni dell’Ottocento e che Giordano aveva già approcciato parzialmente con Fedora (1898). Questo repertorio include ovviamente anche Risurrezione di Franco Alfano, che debuttò a quasi un anno di distanza dall’opera di Giordano (e che il Teatro del Maggio ha messo in scena poco prima della pandemia). Entrambe cavalcavano l’onda della passione per i romanzi russi esplosa in Italia in quegli anni, ma laddove con Risurrezione si può parlare di un’opera che può avere una effettiva presa sul pubblico di oggi, grazie a un libretto molto agile e teatrale, oltre che per il ruolo della protagonista, una vera primadonna istrionica, Siberia appare assai più debole. Già all’epoca della prima i critici lamentarono una insistenza sui soliti cliché melodrammatici, con il baritono e il tenore (a cui si aggiunge Alexis, altro tenore, nel primo atto), i quali si contendono la primadonna destinata a fare una brutta fine e sublimarsi in una immancabile redenzione. Il libretto di Illica, che prende ovviamente ispirazione da varia letteratura russa, in particolare da Resurrezione di Tolstoj e Memorie da una casa di morti di Dostoevskij, manca inoltre di mordente drammatico, a partire dai versi che spesso smorzano da soli parte dei momenti che potrebbero essere drammaturgicamente di impatto. Nonostante questo, Giordano, che dovette alquanto lottare con Illica per raggiungere l’asciuttezza che vediamo in scena, costruisce momenti meritevoli di attenzione, come i cori e il preludio del secondo atto, frutto di uno studio appassionato delle melodie popolari russe: proprio il secondo atto, nella sua compattezza, fece una grande impressione su Gabriel Fauré quando recensì la prima parigina dell’opera. Da tali premesse ne consegue che per sostenere su un palco un lavoro del genere, in modo da non farlo sembrare solo una curiosità che poi ripiomberà nel semi-oblio, sia indispensabile un grande sforzo da parte di tutti coloro che collaborano alla messa in scena.

A Firenze, dove si esegue la revisione che Giordano fece per una ripresa scaligera del 1927, l’allestimento è firmato per la parte registica da Roberto Andò. Il sipario si apre su un interno borghese; la scenografia, le luci e i movimenti curati dei primi personaggi in scena fanno pensare che si stia per assistere a una produzione meramente illustrativa, ma almeno ben condotta. L’impressione dura pochi minuti: le pareti laterali subito dopo si alzano, sostituite da muri grigi simili a quelli del palcoscenico che si vedono in lontananza, mentre una troupe cinematografica si affaccenda per riprendere da vicino i protagonisti che entrano via via in sul set: assistiamo dunque alle riprese di un film, come fossimo dietro le quinte, tanto che vediamo anche la primadonna prepararsi, mettersi un bellissimo vestito blu prima di entrare in scena e cantare la sua aria. Tuttavia l’intervento delle macchine da presa presto si dirada, gli interpreti rimangono sempre più in balìa di loro stessi in classiche movenze da melodramma, che spesso si traducono in uno stare fermi al proscenio a guardare la sala. L’impianto cinematografico rimane una mera idea, totalmente non sviluppata, e quando ritorna, come nel finale, appare avulsa dal resto dello spettacolo. Peccato perché le scenografie di Gianni Carluccio, valorizzate da luci suggestive, sono di grande impatto e con una vera direzione attoriale avrebbero potuto aiutare a costruire uno spettacolo interessante.

La parte musicale è dominata da Gianandrea Noseda, che finalmente porta in teatro questo titolo che già aveva tentato di mettere in scena a Torino. Noseda legge Siberia come se fosse una costola di musica russa nel panorama operistico italiano, con una ricerca di sottigliezze e colori tale che a tratti sembra di sentire Musorgskij invece che Giordano. L’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino lo segue compatta su questa via, con un bel suono levigato, dimostrando ottima sintonia con la bacchetta, come si sente bene nel bellissimo preludio al secondo atto, teso e scavato in un colore orientale. La lettura di Noseda appare tuttavia di impianto più sinfonico che teatrale: si apprezzano appunto più gli squarci strumentali che la concertazione con i cantanti, tanto che le voci risultano talvolta poco sorrette e sembra esserci un’intesa cordiale ma non profonda tra buca e palcoscenico, pur in una riuscita complessivamente buona.

Il cast ha dei sicuri elementi di spicco ma promette più di quello che mantiene. Sonya Yoncheva si è ormai fatta alfiera del ruolo di Stephana, che aveva già affrontato in concerto. La voce, connotata da un timbro ambrato che ormai ben conosciamo, si sposa infatti alla perfezione con la tessitura del ruolo, mettendo in luce centri corposi e acuti svettanti in una organizzazione vocale di prim’ordine. Il soprano esegue una buona entrata con l’arioso “Che l’amante mio giammai”, con cui mette in evidenza un personaggio appassionato e sensuale. La sua prestazione, però, decolla davvero dal duetto del secondo atto, quando diventa sempre più fiera e femminile sia negli accenti che nella recitazione. Talvolta Yoncheva manca di approfondimento nel fraseggio, ma la sua rimane una prova comunque assai positiva.
Colpisce meno il Vassili di Giorgi Sturua. Il suo strumento baritenorile spicca soprattutto nei passaggi centrali, mentre in alto perde talvolta l’intonazione e risulta al limite della sua estensione vocale. L’interprete non brilla per fantasia, ma alla fine risulta funzionale. George Petean è invece perfettamente a suo agio nel ruolo di Gléby, sia vocalmente, dato che non si nota alcuna forzatura in una linea assai omogenea, sia interpretativamente, disegnando un personaggio umanissimo, semplicemente innamorato con una sana dose di egoismo, e non mefistofelico come ci si potrebbe aspettare.
Giorgio Misseri risolve il ruolo del Principe Alexis con la giusta compostezza e una vocalità chiara che ben rendono la distanza sociale dagli altri. Tra i vari comprimari che animano il dramma vale la pena di menzionare la coppia di servi del primo atto costituita da Caterina Piva, che interpreta Nikona con la sua voce mezzosopranile di bella pasta, e Antonio Garés, Ivan, con uno schietto strumento tenorile, sempre precisi e ben a fuoco nei loro interventi, così come risulta ottimo anche Francesco Samuele Venuti nel breve ruolo del capitano. Il resto del cast risolve con accenti adeguati le proprie frasi, mentre il Coro del Maggio Musicale Fiorentino, preparato come sempre da Lorenzo Fratini, sa ben valorizzare gli ampi squarci di colore russo di cui è disseminata la partitura.
Il non foltissimo pubblico saluta questa prima fiorentina con un netto successo, salutando con entusiasmo soprattutto Yoncheva e Noseda.

Teatro del Maggio – 83° Festival del Maggio Musicale Fiorentino
SIBERIA
Dramma in tre atti di Luigi Illica
Musica di Umberto Giordano

Stephana Sonya Yoncheva
Vassili Giorgi Sturua
Gléby George Petean
Nikona Caterina Piva
Il principe Alexis Giorgio Misseri
Ivan Antonio Garés
Il banchiere Miskinsky Francesco Verna
Walinoff Emanuele Cordaro
Il capitano Francesco Samuele Venuti
Il sergente Joseph Dahdah
Il cosacco Alfonso Zambuto
Il Governatore Adolfo Corrado
L’invalido Davide Piva
L’ispettore Amin Ahangaran
La fanciulla Caterina Meldolesi

Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Gianandrea Noseda
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Roberto Andò
Scene e luci Gianni Carluccio
Costumi Nanà Cecchi
Video design Luca Scarzella
Nuovo allestimento

Firenze, 7 luglio 2021

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