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Firenze, Teatro del Maggio – La forza del destino

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L’ossessione di Giuseppe Verdi per lo shakespeariano King Lear è ampiamente conosciuta. Tuttavia il grosso problema che il compositore riscontra quando si trova effettivamente alle prese con tale soggetto è lo sparpagliarsi dell’azione in scene e sottotrame in una continua dilatazione dove risulta difficile raggiungere l’asciuttezza che caratterizza le sue composizioni. Questo non gli impedisce di sperimentare con il tempo e con lo spazio in diversi libretti, prima con il prologo del Simon Boccanegra e poi con Don Carlos, ma nessuna opera vede i personaggi sballottati nel mondo e negli anni come La forza del destino.

Carlus Padrissa, uno dei sei direttori artistici della celebre compagnia catalana La Fura dels Baus, firma il nuovo allestimento fiorentino partendo da questo concetto ed espandendolo a dismisura. La narrazione inizia nel 1758 a Siviglia, ma la morte del marchese apre un varco spazio-temporale che proietta i personaggi in mondi del futuro: prima il 2222 con Carlo che cerca la sorella nello spazio, poi nel 3333 dove assistiamo alla fine della civiltà (con un riferimento anche al terremoto in Giappone del 2011, vissuto dai complessi del Maggio che avevano portato in tournée proprio questo titolo verdiano), in una sorta di danza macabra nucleare, la quale però non è sufficiente a fermare la sete di vendetta del Vargas: l’ultimo atto si svolge quindi in una nuova preistoria, come se il mondo iniziasse nuovamente da capo. La scenografia futuristica firmata da Roland Olbeter è composta principalmente da una prospettiva infinita che converge in un unico punto, come se fosse l’interno di una lunga piramide; la piattaforma di base viene poi girata così da farla assomigliare a una nave che solca le dimensioni in cui i personaggi vengono sballottati, emergendo da essa o provando a guidarla per breve tempo, con scarsi risultati. A dare profondità a questo insieme di base piuttosto scarno, ci pensano le proiezioni di Franc Aleu, usate in modo piuttosto efficace a fini narrativi e descrittivi, risultando fondamentali per connotare i vari ambienti e tempi della vicenda.
Questo viaggio pazzo ideato da Padrissa, e annegato in una estetica talvolta al limite del Kitsch, rimane tuttavia una mera trovata scenografica, in quanto manca un vero lavoro sugli interpreti, i quali rimangono per la maggior parte del tempo fermi a cantare arie e duetti nelle solite pose da melodramma, con l’eccezione di Preziosilla che si lancia in coreografie degne di un video di Kylie Minogue: a parte lei, se si sostituiscono i costumi settecenteschi alle tute spaziali, cambia ben poco. Alquanto deprecabile poi la scelta, non si sa se decisa da regista o dal direttore, di spostare la scena del duello tra Carlo e Alvaro alla fine del terzo atto dopo tutta la scena del campo di Velletri: perde così totalmente di senso il coro dell’entrata nel campo e viene meno anche la forza dirompente del “Rataplan”, che è invece un potente finale d’atto.

L’esperimento riesce a metà anche per la direzione di Zubin Mehta che non brilla certo per teatralità. I tempi sono lenti, ma non sembrano troppo meditati, e spesso non aiutano i cantanti, troppo impegnati a gestire i fiati per approfondire i personaggi. Solo la sinfonia è pervasa da un senso di inesorabilità e disincanto, il quale però viene poi annegato in un finale bombastico che non lesina sui decibel. Quantomeno l’orchestra segue bene il direttore indiano in tutto, mentre il coro preparato da Lorenzo Fratini regala dei bei momenti in ogni suo intervento, in particolare la componente maschile ne “La vergine degli angeli” e nel “Compagni sostiamo”.

Il cast promette più sulla carta che alla prova dei fatti. Saioa Hernández debutta il ruolo di Leonora di Vargas dimostrando ancora una volta una sicurezza invidiabile del registro acuto e una buona gestione dei centri. Esce bene dal primo atto con un “Me pellegrina ed orfana” ben accentato in una compostezza degna del rango del personaggio, così come svetta nella preghiera corale di Hornachuelos. Invece dalla grande aria del secondo atto la compostezza diventa monotonia espressiva, e tutto si riduce a una sostanziale correttezza. Il soprano sfoggia poi poche dinamiche nel “Pace, mio dio” affrontato con una nota di stanchezza, mentre si riprende in un finale assai ben eseguito. La sua è in sostanza una prova discontinua. Roberto Aronica invece affronta Don Alvaro non brillando nel primo atto, dove tende a spingere e a faticare fin troppo, ma riprendendosi a partire dalla sua aria: nella seconda parte dell’opera risulta infatti più a fuoco, con giusti accenti, ottima proiezione della voce, piegata anche a inflessioni e sfumature, in una prova tutto sommato convincente.
Amartuvshin Enkhbat, al debutto fiorentino, è un Don Carlo di Vargas giocato più sulla potenza vocale che sull’espressività. Certo è un bel sentire dato il tonnellaggio e il timbro pregevole dello strumento, ma il personaggio manca di approfondimento. Ferruccio Furlanetto dimostra ancora una tenuta invidiabile quale Padre Guardiano per la scansione della parola e gli accenti uniti comunque a uno strumento di peso cospicuo. Bella voce sfoggia Nicola Alaimo come Fra Melitone, e proprio per questo non si capisce perché debba costantemente spingere e agitarsi, a volte al limite del macchiettismo, quando poi sa anche trovare le giuste inflessioni in una linea di canto sicura che non trascura la perfetta intelligibilità della parola.
La migliore del cast è senza dubbio la Preziosilla di Annalisa Stroppa: precisa nelle agilità, a suo agio in tutta l’estensione e nei costumi assai eccentrici, si muove sul palco con estrema disinvoltura e sfoggia uno strumento di bel colore e ben proiettato. Molto buona è anche la prova di Leonardo Cortellazzi che spoglia Mastro Trabuco di qualsiasi eccesso di tradizione, grazie a un’ottima proiezione e una perfetta aderenza alla linea vocale. Centrato appare poi il Marchese di Calatrava di Alessandro Spina. Completano benissimo il cast la efficace Curra di Valentina Corò, l’alcade molto ben tratteggiato nei suoi pur brevi interventi da Francesco Samuele Venuti e il chirurgo di Roman Lyulkin.
Nonostante i numerosi applausi a scena aperta tributati dal pubblico, alla fine il successo è meno caloroso di quanto si potesse aspettare, e non mancano fischi isolati per la parte visiva. Se questa edizione è parsa quasi stanca, gli spettatori probabilmente lo erano sul serio. Recite fino al 19 giugno. Lo spettacolo viene trasmesso dal 6 giugno sulla piattaforma ItsART.

Teatro del Maggio – 83° Festival del Maggio Musicale Fiorentino
LA FORZA DEL DESTINO
Melodramma in quattro atti di Francesco Maria Piave
[e Antonio Ghislanzoni]
Musica di Giuseppe Verdi

Il Marchese di Calatrava Alessandro Spina
Donna Leonora di Vargas Saioa Hernández
Don Carlo di Vargas Amartuvshin Enkhbat
Don Alvaro Roberto Aronica
Preziosilla Annalisa Stroppa
Padre Guardiano Ferruccio Furlanetto
Fra’ Melitone Nicola Alaimo
Mastro Trabuco Leonardo Cortellazzi
Curra Valentina Corò
Un alcade Francesco Samuele Venuti
Un chirurgo Roman Lyulkin

Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Zubin Mehta
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Carlus Padrissa (La Fura dels Baus)
Scene Roland Olbeter
Costumi Chu Uroz
Light e video designer Franc Aleu
Nuovo allestimento

Firenze, 4 giugno 2021

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