Nell’ambito dell’omaggio a Vincenzo Bellini nei 220 anni dalla nascita, Rai Cultura propone La straniera, in onda domenica 21 novembre alle 10.00 su Rai5. L’allestimento è quello dal Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, nell’allestimento di Mateo Zoni, con la direzione musicale di Fabio Luisi. Protagonisti sul palco Salome Jicia, Dario Schmunck, Serban Vasile e Laura Verrecchia. La regia tv è di Barbara Napolitano. Riproponiamo qui la recensione di Giuseppe Montemagno.
Sospesa tra passato e futuro, La Straniera è forse il titolo più enigmatico dell’intero catalogo belliniano: non è immersa negli astratti furori, nel romanticismo frénétique del Pirata; ma si proietta verso orizzonti nuovi e al tempo stesso antichi, perché mirati al recupero di un rigore, di una compostezza neoclassica esemplata sul canto sillabico, in cui tende a rarefarsi l’uso esornativo dell’ornamentazione. È dunque un titolo di capitale importanza per comprendere la virata che intraprende la drammaturgia di Vincenzo Bellini verso i più maturi, essenziali approdi di Norma; ma è pure un laboratorio altamente sperimentale, meno immediato dell’opera che precede come di quelle che la seguono. La nuova edizione critica approntata da Marco Uvietta – già rodata sulle scene catanesi nel gennaio dell’anno passato, e qui ripresa in vista dell’imminente pubblicazione per i tipi ricordiani – ha aperto squarci di rinnovato interesse verso una partitura negletta: e suggerisce ulteriori scenari a chi vorrà sondare la ‘sostenibilità’ della seconda versione, ‘accomodata’ quando, il 13 gennaio del 1830, Giovan Battista Rubini subentrò a Domenico Reina nel ruolo di Arturo di Ravenstel.
A Firenze – dove l’opera mancava proprio dal 1830, l’unica volta in cui era stata rappresentata alla Pergola – la renaissance della Straniera sembra finalmente assumere connotati di grande interesse, segnatamente in punto musicale: tanto da farne l’evento della LXXXII edizione del Maggio Musicale Fiorentino, declinato sul rapporto tra “Potere e Virtù”. Sul podio, Fabio Luisi trascorre dal tardo-espressionismo dell’ulcerante Lear di Reimann al romanticismo belliniano e opta per la versione originale del 1829, quella tradizionalmente eseguita: firmandone un’edizione di riferimento, tale da lasciar sperare in un futuro itinerario alla scoperta del primo Ottocento pre-verdiano. Alla guida di un’orchestra di straordinario nitore e compattezza, aerea nel gioco di raffinatissimi, eleganti rimandi concertanti dei fiati, il direttore genovese enuclea alcune traiettorie interpretative, degne di particolare attenzione. La prima, capitale, riguarda la pasta sonora: sempre tesa, provvista di una consistenza, di uno spessore ben lontano dall’idea che l’orchestra belliniana debba essere flebile ed esangue, ‘chitarrone’ arpeggiato – giusta l’esecrazione wagneriana – in funzione di mero accompagnamento delle voci. Dalla ricerca dell’equilibrio col palcoscenico deriva la seconda intuizione, e cioè la travolgente teatralità dei recitativi, sempre importante ma a maggior ragione in questo caso, in cui il canto declamato assume un’importanza fondamentale. Di più. Fin dal primo confronto tra Valdeburgo e Isoletta, nel Recitativo dopo l’Introduzione, scaturisce una tensione che si scioglie nel tempo di mezzo del Duetto, al momento dell’apparizione della Straniera: associata alla presenza del ritmo puntato che qui si carica di una drammaticità pulsante, un’impellenza da cui sgorga la stretta, forse fin troppo pimpante ma incalzante, inesorabile, travolgente.
C’è, poi, la pittura d’ambiente, essenziale nella drammaturgia belliniana ma qui forse più che altrove. Si è già detto del ruolo e dell’importanza degli strumenti concertanti. Più che nella Barcarola iniziale, è a partire dall’introduzione alla Scena e Romanza di Alaìde, con la splendida melopea dell’oboe, che Luisi si sforza di enucleare la specificità del dettato belliniano: erede, certo, del paesaggismo rossiniano della Donna del lago, ma ora morbidamente cesellato per creare una spazializzazione del suono che infrange le barriere, non solo fisiche ma anche o soprattutto emotive. La sortita di Alaìde, che mesta s’aggira nella foresta, non sarà solo un dialogo con Arturo: ma prima di tutto con se stessa – magico il ripiegamento di «Tenero cor!» – e soprattutto con un’entità suprema – «Deh! non punirlo dell’amor suo, gran dio!», tutto legato – inflessibile e imperscrutabile, ma da invocare sempre con accorato timore reverenziale. I cori, di cacciatori (nel martellare quasi verdiano di «Qui non visti – qui segreti») o di damigelle, prima del finale, non sono che un’amplificazione di una dimensione panica che passa attraverso la mobilissima tavolozza orchestrale, fino a erompere con inaudita violenza nel Finale I, quando si scatena una tempesta che è immagine fedele di un’autentica, romantica Zerissenheit, dell’intima lacerazione della protagonista. Per questa via Luisi precipita La Straniera nel pieno fervore del dibattito estetico europeo: l’impalpabile cantabile del duetto tra Alaìde e Arturo (nel corso del quale l’una si professa nata «per penar, per fare altrui soffrir», mentre l’altro è pronto a seguirla «in un deserto ancor») appare eco ravvicinata e tangibile di una Winterreise schubertiana, filtrata attraverso una sensibilità squisitamente, melodrammaticamente italiana.
Un progetto tanto ambizioso, quanto catturante, difficilmente avrebbe potuto trovar compimento senza un’idonea distribuzione vocale, nella quale era difficile immaginare scelta migliore di Salome Jicia per indossare i panni regali di Alaìde. Da alcuni anni l’artista georgiana sta affrontando un progressivo avvicinamento al repertorio italiano di primo Ottocento, che adesso l’ha portata a debuttare in ambito belliniano. Il risultato è ampiamente convincente, seppur passibile d’inevitabili miglioramenti, per varie ragioni, a cominciare da un timbro scuro, morbidamente vellutato, particolarmente consentaneo alla fosca terribilità di un personaggio circonfuso da un alone di sventura e di mistero. Pare inutile soffermarsi su una conoscenza della grammatica vocale post-rossiniana, prerequisito indispensabile per affrontare il ruolo: l’eleganza del legato, l’uso accorto del rubato e la sobrietà della coloratura, sempre al servizio della situazione drammatica, sono solo le fondamenta su cui Jicia costruisce il ruolo. Mette in risalto, piuttosto, un gusto della frase, dell’accento, della ricerca dei colori che le permettono di padroneggiare senza tentennamenti l’interminabile primo atto, fino alla saturazione emotiva dell’aria del Finale I, con l’incespicare spezzato di «Un grido io sento…», fino all’esplosione di «Ai suoi lamenti v’unite, o venti», pregevole nelle variazioni e nel trillo che ne trasmette l’intimo, incontenibile turbamento.
Unico tra gli interpreti a non debuttare nel ruolo – lo aveva già affrontato nella sola incisione in studio dell’opera – l’argentino Dario Schmunck risulta più convincente dell’unica occasione in cui aveva già affrontato il personaggio di Arturo di Ravenstel: lo deve, soprattutto, a un timbro chiaro, che si fonde in maniera omogenea a quello degli altri interpreti – segnatamente il baritono – con cui è chiamato a interagire. Forse non brilla per presenza scenica, ma si disimpegna con bella efficacia nel tratteggiare le esitazioni e i tentennamenti dell’eroe perseguitato dal destino, capace di suggestive mezze voci come di un suadente canto a fior di labbro.
È stata invece una piacevole sorpresa scoprire il talento di Serban Vasile, Valdeburgo dal fraseggio cristallino, dall’emissione franca e uniforme, dall’eccellente proiezione e – quel che più importa – padrone del legato: le ampie campiture melodiche di «Meco tu vieni, o misera», pagina memorabile tra quelle composte da Bellini per il leggendario Tamburini, contano tra i vertici della serata. Suscita iniziali perplessità, invece, l’acerba Isoletta di Laura Verrecchia, ancora asprigna nella sortita, ma che presto guadagna terreno fino sfoggiare adeguata sicurezza nella temibile aria del secondo atto. Con l’autorevole Priore di Adriano Gramigni, completano degnamente la locandina l’insinuante Osburgo di Dave Monaco e lo statuario Montolino di Shuxin Li; il Coro, affidato alle cure di Lorenzo Fratini, costituisce uno dei punti di forza dello spettacolo.
Meno convince, invece, proprio la visualità dell’opera, affidata all’esordiente Mateo Zoni, che rinuncia alla Bretagna gotica del libretto di Romani. La Straniera viene immersa in una dimensione atemporale, che punta tutto sull’opulenta sontuosità dei costumi di Stefano Ciammitti, abili nel confondere le acque: cotte di maglie di ferro d’impronta medievale per le donne, armature futuribili per gli uomini, presenza costante di maschere che nascondono il volto dei personaggi – o li camuffano sotto ricche incrostazioni di gemme, che brillano di riflessi grazie alle luci, altrove spesso scontate, di Daniele Ciprì. Svuotato, lo spazio scenico viene riempito unicamente da questi abiti, mirabolanti installazioni che attirano l’attenzione per la foggia bizzarra – ma poco aggiungono alla drammaturgia dell’opera. Il culmine viene forse raggiunto nel Finale I, quando Alaìde, dismesso l’ampio manto che fin qui l’aveva ricoperta, rimane vestita con un singolare abito in lattice rosso, certo immaginato per descrivere la situazione cruenta in cui viene a trovarsi, ma che si fa ammirare unicamente per la fantasiosa originalità della fattura. Più suggestiva è l’ambientazione scenica per il secondo quadro del primo atto, quando la «capanna» di Alaìde viene sostituita da una sorta di camera anecoica argentata, mentre sul lato opposto campeggiano aguzze sculture di specchi, che rimandano e moltiplicano le immagini dei tre personaggi, creando un suggestivo labirinto, dove le identità si celano, si smarriscono e, infine, si ritrovano. Più interessanti sono le proiezioni video che anticipano la presenza della Straniera, quando viene evocata dal coro, nell’Introduzione, e quando si appresta a entrare in scena. Si tratta, tuttavia, di labili spunti di riflessione, che non risultano mai inquadrati in maniera coerente e non facilitano la comprensione dell’azione.
L’unico approccio interessante viene riservato al personaggio di Isoletta, perseguitata dal lungo velo bianco che ne simboleggia le impossibili nozze: ne viene sommersa al termine dell’Introduzione, quasi fosse un sudario che la rende una sposa cadavere, anzitempo immolata all’indifferenza di Arturo; e qui cala anche un velatino, che si solleva solo quando le viene annunciato il ripensamento dell’amato, apparentemente deciso a portarla all’altare. Aleggia l’impressione della ricerca di una dimensione onirica che, se fosse stata perseguita in maniera più conseguente, sarebbe potuta diventare chiave di lettura di un’opera impostata su quella «memoria del passato» che «come un sogno sparirà»: purificata nel sangue di una vittima sacrificale, che gli altri condanna a vivere per coltivare il ricordo dell’errore, del dolore, dell’amore.