Chi è la diva? Secondo la Treccani, è “una cantante o attrice teatrale o cinematografica che abbia raggiunto grande notorietà”. Per quanto vera e inconfutabile, questa definizione può risultare semplicistica. Non basta la notorietà, serve un qualcosa, un quid che distingua la diva rispetto alle cantanti famose e alle altre dive: serve magnetismo, presenza scenica, allure, e queste caratteristiche vanno portate con disinvoltura e consapevolezza allo stesso tempo.
Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea è la quintessenza del divismo in opera. Chi si ritrova a vestire i panni della protagonista, non deve solo impersonare la diva, ma anche un po’ esserlo e crederci fino in fondo. Per lungo tempo appannaggio di cantanti spesso fin troppo mature, a causa della non facile scrittura vocale, e diventata quasi una rarità al di fuori dei confini italici, negli ultimi anni, anche grazie alla produzione di McVicar nata nel 2010 a Londra attorno alla figura di Angela Gheorghiu e da allora esportata in ogni dove, è nata una nuova attenzione per questo titolo e in tante hanno iniziato nuovamente a cimentarvisi, compresa Anna Netrebko, che porterà a breve la sua interpretazione anche sul palcoscenico scaligero.
Originariamente programmata nella primavera del 2020, rimandata causa Covid, e trasformata anche in un film-opera andato in onda sulla Rai, la nuova produzione bolognese firmata da Rosetta Cucchi si mostra finalmente al pubblico della sala del Bibiena. Nella sostanza, poco si discosta rispetto a quello che si è visto nella sua versione per la tv: Adriana attraversa i secoli, dalla Parigi del Settecento a quella della contestazione, con ogni atto a rappresentare un momento diverso nella storia dell’evoluzione del divismo e del ruolo dell’attore. La protagonista infatti non lascia mai la pedana che sta sempre al centro della scena, recitando dall’inizio alla fine, quando viene accolta nell’empireo attoriale dai suoi colleghi visti in controluce. Nell’impianto generale, il momento meno riuscito è il secondo atto, il quale è anche quello che più differisce dalla versione televisiva (ambientato in diversi luoghi del teatro, vedeva le due donne duettare in due palchetti contigui): al posto di questo continuo spostamento, viene ricreato un piccolo villino ottocentesco al centro del palco, e l’azione, a questo punto forzosamente più statica, perde di intensità. Rimane invece inalterato, e anzi potenziato, l’effetto dirompente dell’ultimo atto, dove troviamo una Adriana sul palcoscenico nudo, capelli alla Brigitte Bardot, impegnata in un’ultima nevrotica e sentitissima performance: il ritorno di Maurizio appare come vaneggiamento di una mente nevrotica, tanto che il pubblico riesce a vederlo solo attraverso le proiezioni sul retro del palco. Qui viene alla luce il grande lavoro di regia fatto con gli interpreti, in particolare con la protagonista.
La grande attrattiva di queste recite è infatti il debutto di Kristine Opolais nel ruolo del titolo. È vero che il soprano lettone, dopo anni di assidua frequentazione pucciniana, pare arrivare tardi all’appuntamento. La voce risulta sfibrata, con un timbro leggermente metallico tipico delle cantanti di formazione baltica, più a suo agio nel registro centrale e primo acuto che in quello grave. A fronte di una vocalità non irreprensibile, poco aiutata anche dalla buca, ci si trova tuttavia davanti a un’interprete travolgente, senza la quale la regia avrebbe faticato a stare in piedi. Sin dal suo ingresso in scena risulta difficile staccarle gli occhi di dosso, non solo per la bella figura, ma anche per la disinvoltura scenica e il portamento divistico, magnetico. Nessuna frase viene buttata via e ogni movimento è perfettamente calibrato per rendere il personaggio di Adriana in tutte le sue sfaccettature, mentre si consuma nella passione amorosa per il teatro e per Maurizio. Raramente capita poi di ascoltare e vedere un monologo di Fedra così intenso, quasi giocato per sottrazione nella recitazione tutt’altro che plateale ma estremamente sentito nell’espressione. La Opolais dimostra dunque di avere tutte le caratteristiche del divismo, che la aiutano a stare a galla anche nei momenti vocalmente più carenti.
Al suo fianco troviamo alcuni interpreti che ben sostengono il gioco teatrale, a partire del perfetto Michonnet di Sergio Vitale, cambiamento più vistoso del cast rispetto alla versione video dello scorso marzo. Vitale possiede una voce dotata di bel timbro e consistente volume e affronta il ruolo con una sicurezza musicale invidiabile. Il fraseggio è curatissimo, la linea vocale pulita e la recitazione spigliata, con una immedesimazione estremamente convincente nel personaggio. Luciano Ganci è un Maurizio di Sassonia tenoreggiante al punto giusto. Il bel timbro tenorile e la linea sicura, soprattutto in zona acuta, aiutano a rendere la spavalderia del conte e il suo ruolo di innamorato.
A Veronica Simeoni difettano le note gravi di un ruolo come quello della Principessa di Bouillon, e infatti la sua entrata appare piuttosto sotto tono, ma già dal duetto con Maurizio le cose vanno migliorando fino a un terzo atto vocalmente assai centrato, con una recitazione convincente, dove la cattiveria e l’odio riescono a rimanere sotto pelle senza cadere nel farsesco.
Meno convincenti appaiono invece alcune parti di contorno, a partire dal macchiettistico Abate di Gianluca Sorrentino e dal monolitico Principe di Romano Dal Zovo. Più centrati sono invece i due commedianti: Quinault interpretato da Luca Gallo, e il Poisson di Stefano Consolini. Buona appare la Dangeville di Aloisa Aisemberg, mentre risulta opaca la Jouvenot di Elena Borin. Ottimi tutti gli interventi del coro preparati da Gea Garatti Ansini.
Alla guida dell’Orchestra del Comunale di Bologna, Asher Fisch realizza una direzione priva della retorica e dei cascami che solitamente caratterizzano le esecuzioni di questo repertorio, che è invece una miniera di raffinatezze orchestrali e momenti estremamente teatrali. Manca tuttavia una vera calibratura con il palco, motivo per cui l’orchestra appare molto speso preponderante rispetto agli artisti in scena, i quali avrebbero bisogno di maggiore sostegno: la lettura orchestrale risulta quindi apprezzabile, al netto di qualche passaggio meno curato, mentre la concertazione appare perfettibile.
Il pubblico della prima appare assai convinto dello spettacolo nel suo insieme, e alla fine tributa grandi applausi a tutti i solisti e agli artefici della messa in scena.
Teatro Comunale – Stagione 2021
ADRIANA LECOUVREUR
Commedia-Dramma di Eugène Scribe ed Ernest-Wilfrid Legouvé
ridotta in quattro atti per la scena lirica da Antonio Colautti
Musica di Francesco Cilea
Adriana Lecouvreur Kristine Opolais
Maurizio, Conte di Sassonia Luciano Ganci
Michonnet Sergio Vitale
La principessa di Bouillon Veronica Simeoni
Il principe di Bouillon Romano Dal Zovo
L’abate di Chazeuil Gianluca Sorrentino
Madamigella Jouvenot Elena Borin
Madamigella Dangeville Aloisa Aisemberg
Poisson Stefano Consolini
Quinault Luca Gallo
Orchestra, Coro e Tecnici del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Asher Fisch
Maestro del coro Gea Garatti Ansini
Regia Rosetta Cucchi
Scene Tiziano Santi
Costumi Claudia Pernigotti
Luci Daniele Naldi
Coreografia Luisa Baldinetti
Video Roberto Recchia
Nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna
con Fundación Opera de Oviedo e Opera Australia
Bologna, 14 novembre 2021