“I giovani non provano dolore” dice Ecuba nella Medea di Euripide. E invece no: lo provano eccome. Parte da qui l’originalissima regia di Francesco Micheli per Medea in Corinto, capolavoro di Giovanni Simone Mayr che il Festival Donizetti mette in scena quale doveroso omaggio al maestro del celebre operista bergamasco. Si tratta della versione che il compositore bavarese, ma orobico d’adozione, approntò proprio per il Teatro Sociale di Bergamo nel 1821, rielaborando la prima edizione dell’opera, scritta nel 1813 per il Teatro San Carlo di Napoli.
La regia di Micheli, una delle sue migliori in assoluto tra quelle che conosciamo, assume dunque come punto di vista per la terribile vicenda proprio quello delle vittime designate, i figli. Che sono vittime due volte: prima dello scontro tra i genitori e poi della mano assassina della madre. L’azione si svolge “nei nostri meravigliosi e feroci anni Settanta” e quello che si squaderna davanti agli occhi del pubblico è una sorta di “gioco delle coppie”, che si sovrappone e si interseca alla tragedia classica – qui la penna di un giovanissimo Felice Romani attinge più a Corneille che a Euripide -, smorzando la dimensione epica e rendendola più umana. La cosa per certi versi sorprendente è che la regia di Micheli riesce a salvaguardare la dimensione alta, archetipica del modello e a rendere parimenti plausibile questo bagno di realtà nelle schermaglie quotidiane, forse anche un po’ banali, di due coppie di innamorati, tra slanci e bugie, ammiccamenti e scenate. Tutto questo, enucleando o anche solo suggerendo una serie di sottintesi che rendono davvero avvincente il dipanarsi della storia. Il gioco riesce anzitutto per quella intuizione iniziale, che fa da filo conduttore alla narrazione: la presenza costante dei figli, interpretati da due bravissimi attori. Ma parte importante nella riuscita dell’operazione la rivestono anche le scene di Edoardo Sanchi, con quegli interni vintage così “cool” ai nostri occhi di uomini e donne del 2021, ma che all’epoca dovevano essere il segno distintivo della conquista di una tranquillità economica per la piccolissima e anonimissima borghesia. I quattro ambienti su cui agiscono i personaggi (due camere da letto, una cucina e un soggiorno) scendono dall’alto su pratiche pedane e sono circondati da un fondale che riflette nelle pozzanghere dell’asfalto alcuni palazzoni di periferia di una qualche città del nord (qui proprio Bergamo), tirati su in fretta negli anni Sessanta e abitati da tanti immigrati meridionali. Inutile dire che sono bellissimi, proprio per il discorso di cui sopra, i costumi così coloritamente anni Settanta di Giada Masi (altro vintage oggi così “smart”). Le luci di Alessandro Andreoli accendono di ulteriore suggestione una regia che appare davvero pensata nei minimi dettagli, esito di un approfondito lavoro sulle fonti e sostenuta dalla granitica convinzione che il teatro abbia sempre qualcosa da dire alla contemporaneità. Soprattutto quando attinge a una storia archetipica come questa.
Poi c’è la musica di Mayr. Che è bella, scritta benissimo, raffinata nella combinazione armonica e strumentale (penso a certi interventi solistici), nella ricerca di una compostezza che stemperi i tormenti e le passioni. Ma che forse emoziona di più quando sembra accantonare per poco il rigore bavarese e abbandonarsi invece alla più immediata emotività italiana (si veda la potente scena in cui la protagonista evoca le divinità infere). Ottimo dunque il lavoro del direttore Jonathan Brandani, duttile nel fraseggio e sensibile al canto, capace di una narrazione che accende di fremiti romantici l’edificio classico di Mayr. Il maestro e il regista (e direttore artistico del Festival) Micheli parlano di un “Mozart cresciuto e preromantico”. E colgono nel segno: Medea in Corinto è la punta di diamante del catalogo di un compositore a suo tempo ammiratissimo. Ma – ci perdonino tutti – è inevitabile pensare che tra il 1813 della prima napoletana e il 1821 della ripresa bergamasca, sull’Europa musicale si abbatta il “ciclone Rossini”. E non diremo di più.
Opera per primadonna, Medea in Corinto trova in Carmela Remigio la cantante attrice ideale per restituire la sconvolgente modernità e la tormentata lacerazione interiore della protagonista. Non si risparmia, Carmela Remigio, e se vocalmente il soprano non sfoggia la pienezza timbrica di un tempo, la sua recitazione ricorda, nella forza espressiva di cui è portatrice, certe interpretazioni di Silvana Mangano o di Lina Sastri. Juan Francisco Gatell è un Giasone di linea vocale duttile e morbida, molto musicale e attento al fraseggio, così come Michele Angelini risolve con onore la difficile parte di Egeo, sfoggiando anche notevole gusto e accento nei recitativi e nella coloratura. Squisita la Creusa di Marta Torbidoni, il cui timbro prezioso si piega con grazia all’involo melodico e affronta con sicurezza le pagine virtuosistiche. Roberto Lorenzi è un Creonte autorevole e imponente, mentre molto bene hanno fatto Caterina Di Tonno (Ismene) e Marcello Nardis (Tideo). Il coro, istruito da Fabio Tartari, ha un po’ patito la collocazione nei palchi di proscenio.
Donizetti Opera 2021
MEDEA IN CORINTO
Melodramma tragico di Felice Romani
Musica di Giovanni Simone Mayr
Edizione critica della versione di Bergamo (1821) a cura di Paolo Rossini
Creonte Roberto Lorenzi
Egeo Michele Angelini
Medea Carmela Remigio
Giasone Juan Francisco Gatell
Creusa Marta Torbidoni
Ismene Caterina Di Tonno
Tideo Marcello Nardis
Orchestra Donizetti Opera
Coro Donizetti Opera
Direttore Jonathan Brandani
Maestro del coro Fabio Tartari
Maestro al fortepiano Hana Lee
Regia Francesco Micheli
Scene Edoardo Sanchi
Costumi Giada Masi
Lighting design Alessandro Andreoli
Drammaturgo Davide Pascarella
Assistente alla regia Tommaso Franchin
Assistente alle scene Chiara Taiocchi
Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Donizetti
Bergamo, Teatro Sociale, 20 novembre 2021