Prima di creare danni anche nel mondo operistisco con la diffusione dell’ideologia politicamente corretta, gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo fondamentale nella storia dell’interpretazione rossiniana. Che ne sarebbe stato di Rossini senza le voci born in the USA? Forse, le sue opere serie oggi sarebbero meno conosciute. Di sicuro, non avremmo avuto la Rossini Renaissance. Senza Horne, Sills, Cuberli, Ramey, Blake, Merritt, determinate tipologie vocali non sarebbero tornate in auge e spettacoli leggendari come L’assedio di Corinto scaligero o le grandi stagioni pesaresi degli anni Ottanta ce li saremmo sognati. Purtroppo quei fasti sono ormai un ricordo: esaurita la linfa vitale immessa dai virtuosi statunitensi, che aveva spinto anche gli italiani all’emulazione, siamo in tempi di vacche magre. Non che manchino in assoluto le voci, ma i buoni professionisti, più il solito Flórez (Camarena purtroppo è scarso nelle agilità), non fanno primavera.
Il Rossini Gala proposto con successo all’Arena di Verona, sotto la direzione di Jader Bignamini, è un po’ uno specchio dell’attuale situazione. Spicca il nome di Lisette Oropesa, soprano statunitense, che proprio con Rossini al ROF di Pesaro si è fatta conoscere due anni fa dal pubblico italiano, e che ora è una certezza del panorama lirico internazionale. Si tratta in effetti di una solida professionista: un soprano lirico-leggero dotato di una tecnica e una personalità interpretativa che le consentono di spaziare in un repertorio che va da Mozart a buona parte dell’Ottocento operistico italiano e francese. La voce, che ha un leggero vibrato e ricorda, come è stato giustamente notato, certe inflessioni timbriche della Gheorghiu, corre senza problemi anche in ampi spazi. L’emissione è rotonda e fluida in tutta la gamma e solo qualche sopracuto a volte risulta meno pieno e timbrato. In “Bel raggio lusinghier” da Semiramide, Oropesa mette subito in luce l’accuratezza del fraseggio, l’accento ben calibrato, l’ottima dizione, dominando senza particolari problemi la tessitura tendenzialmente centrale dell’aria (il ruolo viene concepito da Rossini per la Colbran), dando sfogo al registro acuto e sopracuto nella parte finale, debitamente variata con eleganza e disinvoltura. Le agilità sono buone, ma non trascendentali. Poco filologica, se vogliamo, la scelta di cantare l’aria di Rosina dal Barbiere di Siviglia, “Una voce poco fa”, che Rossini scrive per contralto, con una tessitura che oscilla per la precisione fra contralto e mezzosoprano. Anche qui, nessun problema per Oropesa, che affronta la versione sopranile con facilità, coloratura puntale ed espressiva, senza i bamboleggiamenti tipici dei soprani leggeri che un tempo avevano l’appannaggio del ruolo. Insomma, non sarà una fuoriclasse del canto rossiniano, ma sicuramente Lisette Oropesa si conferma una vocalista e un’interprete di rango.
A un livello da teatro internazionale ci riporta anche Levy Seckapane, forse il cantante del concerto veronese più in regola con lo stile di Rossini. Il ventinovenne tenore sudafricano, lanciato dal Concorso Operalia diretto da Domingo, ha timbro chiaro, volume contenuto ma adeguato ai ruoli che solitamente affronta, e sale con facilità nel registro acuto e sopracuto. Il suo modello è evidentemente Flórez. Nell’aria impervia di Idreno da Semiramide “La speranza più soave”, regge senza batter ciglio la tessitura acuta, è espressivo quando canta piano e risolve in maniera ineccepibile le agilità previste. E proprio le agilità sono un punto di forza di questo giovane vocalista. Lo dimostra in particolare l’esecuzione di “Cessa di più resistere”, l’aria conclusiva del Barbiere di Siviglia (spesso sforbiciata), dove la voce, per quanto piccola, acquista una energia e una lucentezza che rendono bene la concitazione trasfigurata della coloratura rossiniana, dando l’idea della nobiltà del personaggio di Almaviva ed esprimendo allo stesso tempo la sua esultanza per la felicità finalmente conquistata. Levy Seckapane è insomma un elemento da tenere d’occhio e, se saprà gestirsi bene, in Rossini farà parlare si sé.
Gli altri protagonisti del Gala sono cantanti italiani (o di origine italiana), tutti validi professionisti, ma in qualche caso dal rendimento più disomogeneo. Le cose migliori le ascoltiamo da Roberto Tagliavini e Marina Viotti. Il primo propone “La calunnia è un venticello”, l’aria di Basilio dal Barbiere. Tagliavini esibisce una voce da basso-baritono come sempre morbida e ben emessa, adeguatamente consistente e scura, e soprattutto duttile, da poter affrontare il trascinante crescendo dell’aria che descrive il venticello della calunnia che si trasforma gradualmente in “un tremuoto”. La giovane Viotti (svizzera di nascita e figlia del compianto Marcello Viotti) non ha le stigmate del vero contralto rossiniano: la voce è chiara, con qualche bella ombreggiatura, ma quasi sopranile. L’estensione è tipica del mezzosoprano acuto e quindi sale in alto agevolmente. Affronta la grande aria di Cenerenola e ne esce a testa alta: la vocalizzazione è elegante, fraseggia con delicatezza ed espressione il cantabile “Nacqui all’affanno e al pianto”, mentre nel rondò conclusivo esibisce agilità di forza discrete, ma ancora povere di mordente.
Resta da dire dei due baritoni. Mario Cassi canta la cavatina di Figaro dal Barbiere, “Largo al factotum”, di cui affronta la linea vocale sillabica con molta verve e brillantezza; la tenuta dell’emissione, pur con qualche sparsa disomogeneità, è complessivamente buona. Il decano Alessandro Corbelli, infine, si fa valere in “Miei rampolli femminini” da Cenerentola per l’abile caratterizzazione e la capacità di calarsi perfettamente in una parte di buffo “parlante”. Altrettanto convincente il suo contributo nel duetto con Cassi “Un segreto d’importanza”, sempre da Cenerentola. Quanto però decide di cimentarsi con il canto legato e morbido richiesto da “Resta immobile” dal Guglielmo Tell, Corbelli risulta molto meno persuasivo.
I sei cantanti, tutti insieme, danno quindi il loro valido apporto sia al concertato del finale primo del Barbiere, che a quello grandioso dal quarto atto di Guglielmo Tell proposto in chiusura di serata e valorizzato pure dagli interventi del coro preparato da Vito Lombardi, oltre che dalla presenza sul podio di Jader Bignamini. Il quale, oltre a garantire accompagnamenti puntuali e ben dosati a tutti i solisti, dirige con ottimi risultati anche le sinfonie di Semiramide e Guglielmo Tell. Da quanto di può capire da queste due interpretazioni, nell’ottica di Bignamini l’ultimo Rossini, già in Semiramide, è ormai del tutto sganciato dall’eredità barocca e dal classicismo e, pur non rinunciando alle tinte leggere e brillanti, è già immerso in un respiro scopertamente drammatico e aperto alle profezie di un acceso romanticismo.
Grande successo per tutti, gran finale con fuochi d’artificio e, come bis, la preghiera di Mosè “Dal tuo stellato soglio”, seguita dalla ripresa del finale del Tell e dal finale primo del Barbiere.
Arena di Verona – Festival d’estate 2020
ROSSINI GALA
Musiche di Gioachino Rossini
Soprano Lisette Oropesa
Mezzosoprano Marina Viotti
Tenore Levy Sekgapane
Baritono Mario Cassi
Baritono Alessandro Corbelli
Basso Roberto Tagliavini
Orchestra e coro dell’Arena di Verona
Direttore Jader Bignamini
Maestro del coro Vito Lombardi
Verona, 14 agosto 2020