In mezzo ai tanti problemi che la pandemia in corso ha procurato ai teatri, non manca qualche buona notizia. I registi, per esempio, sono stati costretti ad accantonare le riletture operistiche legate all’ideologia politicamente corretta, a cui hanno aderito (con poche eccezioni) negli ultimi anni. Le norme sul distanziamento, le difficoltà contingenti e i pochi mezzi a disposizione non consentono voli pindarici, e come d’incanto gli spettacoli che trasformavano le opere in drammi di migranti, razzismo, femminicidio ecc. si sono dileguati. Ora ci si limita alla forma semiscenica, a mettere a punto le entrate e le uscite, a suggerire una recitazione più o meno espressiva ai cantanti, lasciando il coro immobile sullo sfondo. Sotto un certo aspetto, è una liberazione. In compenso, tutti i titoli che dalla fine della quarantena vengono proposti nelle nostre stagioni – si tratti di lavori di Vivaldi, Donizetti, Verdi o Puccini – sono divenuti improvvisamente drammi dell’isolamento e della solitudine. La dinamica è sempre la stessa: rendere le opere e i loro personaggi compatibili con i canoni del presente, uniformandoli conformisticamente alla moda o al tema del momento.
Nella nuova edizione di Traviata proposta dal Teatro La Fenice, il regista francese Christophe Gayral firma un allestimento in forma semiscenica ambientato ai tempi del Covid e del distanziamento sociale. Nel preludio vediamo il solito flashback alla Zeffirelli con Violetta morente, ma questa volta la vicenda è collocata in un ospedale dei nostri giorni e si suppone che il “morbo” sia il Coronavirus. In realtà, al di là della visione della protagonista sotto ossigeno, degli infermieri e Alfredo con le mascherine, lo svolgimento dello spettacolo è poco chiaro e pieno di incongruenze. Dal punto di vista concettuale, la scelta di Gayral sarebbe anche condivisibile: La traviata è l’opera più rappresentata al mondo perché tocca una serie di tematiche tuttora attuali: il pregiudizio sociale, l’ipocrisia borghese, la prostituzione, ma anche la solitudine e l’emarginazione causate dalla malattia. Il punto è che al concept non corrispondono una cifra visiva ben definita e un lavoro registico coerente e credibile. Finito il preludio, la festa non decolla: il coro è nascosto dietro un velario nero e in scena ci sono solo i comprimari e i due protagonisti. Un ritrovo per pochi intimi che stride con il registro sinfonico smagliante della musica legato a una chiara manifestazione di mondanità. Lo stesso avviene nella festa del secondo atto dove, dopo i risibili siparietti di un manipolo di zingarelle e mattadori, si alza il velario e il coro appare finalmente nella scena della borsa, dove può starsene fisso e immobile come in qualsiasi altro allestimento del capolavoro verdiano. Non convince poi la raffigurazione dei personaggi (papà Germont è un improbabile commesso viaggiatore, mentre Alfredo rientra nel cliché del bamboccione imbranato), né tanto meno la gestione di alcuni momenti topici: che nel terzo atto Violetta cada continuamente a terra e non venga soccorsa perché tutti restano impalati a guardarla è solo un controsenso drammatico e psicologico che mette a disagio lo spettatore. E a nulla contano le insistite e stucchevoli citazioni di altri celebri allestimenti che Gayral dissemina a piene mani nel corso della rappresentazione.
Anche sul fronte musicale, non tutto va per il meglio. Stefano Ranzani sembra optare per una lettura di asciutta evidenza teatrale che vede nell’opera una febbrile corsa della protagonista verso la tragedia conclusiva. Stacca tempi spediti (a volte fin troppo), di cui si avvantaggiano soprattutto le scene di festa, dove circolano nervosismo e tensione, ma che spesso finiscono per condizionare gli abbandoni patetici e i ripiegamenti interiori. Questa condotta narrativa impedisce inoltre al direttore di instaurare un rapporto appagante di scambi espressivi con il palcoscenico: i cantanti non sono stimolati a dare peso emotivo alla parola scenica, né a fraseggiare nel rispetto dei segni d’espressione.
Claudia Pavone è una Violetta che alterna momenti interessanti ad altri che risentono di qualche limite vocale e interpretativo. La voce è bella e ben timbrata nel registro medio-alto, un po’ meno in basso, e denota qualche tensione negli estremi acuti. Il primo atto non la vede brillare molto: nella cabaletta conclusiva, pur esibendo agilità discrete, spiana i trilli e il mi bemolle sopracuto di tradizione è letteralmente gridato. Negli atti successivi non mancano i momenti convincenti, ma il pathos drammatico è intermittente e nel complesso l’interprete non denota una spiccata personalità.
Nei panni di Giorgio Germont, Alessandro Luongo è irriconoscibile rispetto all’ottima prova offerta nel recente Roberto Devereux veneziano. Il timbro risulta chiaro, l’emissione a tratti opaca negli acuti. Sotto il profilo espressivo ha buone intenzioni: sia nel duetto con Violetta che nell’aria “Di Provenza” si sforza di cantare piano, di sfumare, di variare l’accento. La linea di canto è nondimeno discontinua e il personaggio, complice anche l’impostazione registica, è troppo distaccato e manca di nobiltà.
Quanto a Matteo Lippi, dimostra di avere tutti i requisiti per sostenere credibilmente la parte di Alfredo: voce sonora e di bel timbro, emissione nell’insieme corretta, acuti squillanti. Affronta con baldanza “De’ miei bollenti” anche se sorvola sui segni d’espressione, ma quando vuole, per esempio nei duetti con Violetta, sa cantare con una adeguata gamma di sfumature.
I comprimari non sono tutti vocalmente al meglio, ma si adeguano volenterosamente alle indicazioni registiche. Ricordo Enrico Iviglia, Gastone, Armando Gabba, barone Douphol, Mattia Denti, il dottor Grenvil, e Matteo Ferrara, marchese d’Obigny. Un po’ anonimi gli interventi del coro che, nonostante le centinaia di recite di Traviata macinate negli ultimi lustri, va addirittura fuori tempo nell’episodio dei mattadori.
Alla fine, successo caloroso in particolare per Lippi e Pavone.
Teatro La Fenice – Stagione 2019/20
LA TRAVIATA
Melodramma in tre atti
in forma semiscenica
Libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valery Claudia Pavone
Alfredo Germont Matteo Lippi
Giorgio Germont Alessandro Luongo
Flora Bervoix Elisabetta Martorana
Annina Sabrina Vianello
Gastone Enrico Iviglia
Il barone Douphol Armando Gabba
Il dottor Grenvil Mattia Denti
Il marchese d’Obigny Matteo Ferrara
Giuseppe Safa Korkmaz
Un domestico di Flora Giampaolo Baldin
Un commissionario Nicola Nalesso
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Stefano Ranzani
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Regia Chistophe Gayral
Light designer Fabio Barettin
Allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 25 settembre 2020