Dopo la pausa di agosto, il Teatro Verdi di Trieste si ripresenta al pubblico con una serie di sei concerti a cui seguiranno, fra dicembre e gennaio 2021, alcune recite della Traviata e il balletto Il Lago dei cigni. Una programmazione prudente e tuttavia non priva di nomi e titoli interessanti (pagine di Dall’Ongaro, Respighi, il Requiem di Fauré), che riconferma la volontà di non lasciare la città senza musica, in attesa che meglio si definisca e, auspichiamo, si risolva l’emergenza Covid-19.
L’apertura della Attività artistica autunno 2020 non poteva non richiamare un pubblico numeroso, considerata la presenza sul palcoscenico di due importanti nomi della lirica internazionale, il soprano Maria José Siri e il tenore Marcelo Álvarez. Precedentemente annunciato, il Maestro Francesco Ivan Ciampa, colpito da un grave lutto familiare, è stato sostituito dal Maestro Jordi Bernàcer alla guida dell’Orchestra del Teatro Verdi, a cui si aggiungeva il Coro del Teatro diretto da Francesca Tosi. Se già la locandina bastava a creare aspettative, di certo non sono mancate in sala le sorprese. Innanzitutto, dall’Orchestra che è apparsa in forma smagliante suonando, in ogni sezione, come da tempo, a mio avviso, non la sentivamo.
Bisogna dare grande merito alla concertazione di Jordi Bernàcer che riesce a equilibrare e, si sarebbe tentati di dire, volgere a proprio vantaggio le restrizioni in termini di distanziamento imposte dalle normative anti Coronavirus. Sin dalle battute della Sinfonia da I vespri siciliani di Verdi ottiene dalla compagine triestina un suono pulito e una tensione carica di attesa che trova la sua naturale e logica conclusione nell’Allegro agitato, in cui si apprezzano il fraseggio ampio, la cantabilità e ricchezza dinamica. Bernàcer si dimostra interprete raffinato, attento a ogni dettaglio, capace di illuminare di colori e intenzioni nuove, pagine spesso trattate semplicemente in funzione del canto, come, ad esempio, l’introduzione al Lamento di Federico dall’Arlesiana di Cilea. Scattante nel gesto, sempre elegante, rigoroso nella tenuta dei complessi, rende con estrema chiarezza formale il pathos e lo stile di ogni pagina. Esemplare l’esecuzione dell’Intermezzo al Terzo atto dalla Manon Lescaut di Puccini in cui le scelte agogiche, senza rinunciare all’elasticità, non cedono a eccessi languidi, dosando in maniera ottimale gli echi wagneriani e i segnali di modernità di cui la pagina è carica. Ma dicevamo che essenziale è anche il suo apporto nello sfruttare le difficoltà generate dalla disposizione sul palcoscenico degli strumentisti e, soprattutto, del Coro, istruito e guidato come sempre dall’ottimo Maestro Francesca Tosi, il quale risulta penalizzato, collocato così a ridosso del fondo scena (dalla platea, complice un’acustica non perfetta, risulta particolarmente arrischiata la posizione). Il pericolo di essere coperto dall’orchestra è tuttavia scongiurato e, quella che è una costrizione, diventa all’opposto una situazione che si direbbe ricercata: ecco dunque che il coro “Oh Signore dal tetto natio” da I Lombardi alla prima Crociata di Verdi, suona giustamente lontano, quasi davvero riecheggiasse dalla piana prossima a Gerusalemme, e se il Finale di Macbeth appare più contenuto nelle sonorità, il “Va’ pensiero” del Nabucco sembra un virtuosismo, un’autentica memoria ricca dei tenui colori di un pastello, giunta sulle sponde del Giordano per spegnersi in una lunga e sfumata, sino a dissolversi, corona conclusiva a voci scoperte.
Marcelo Álvarez conquista per la carica comunicativa di un canto estroverso e una musicalità istintiva, che talora, tuttavia, vanno a discapito dell’assoluto controllo di una voce esuberante, il cui fascino timbrico risulta a tratti offuscato. “È la solita storia del pastore” da L’Arlesiana, presenta alcune disomogeneità di emissione, evidenti soprattutto quando il tenore cerca di cantare a mezza voce; il timbro risulta tuttavia ancora fascinoso nel registro medio acuto, specie quando non forza. Risulta così pienamente convincente nella magnifica “Ô souverain, ô juge, ô père” da Le Cid di Massenet, forse la sua esecuzione migliore della serata: fraseggio ampio, una tavolozza dinamica bene modulata, un canto non sfogato, ma che si dipana naturale e accorato. “E lucean le stelle” dal terzo atto di Tosca presenta luci e ombre come il brano dell’Arlesiana, con piani non sempre ben sostenuti e, all’opposto, acuti che tendono, per impeto e fuoco, a perdere il controllo e a forzare. È un canto dal fascino naturale, che conquista il pubblico in virtù della sua simpatia e comunicatività: passionale, riesce a donare credibilità ai personaggi. Nell’immancabile “Nessun dorma” dalla Turandot, il fraseggio della sezione centrale è particolarmente curato e la voce risulta più controllata nella smorzatura sull’arcata discendente della prima parte, prima di erompere possente nel “vincerò” conclusivo.
Maria José Siri offre, all’opposto, una lezione di tecnica vocale e controllo, confermandosi artista e interprete di levatura: voce dal timbro luminoso e vellutato, omogenea in tutte le ottave, tutto nel suo (bel)canto è morbidezza. Naturalezza è un termine che vorremmo usare anche per lei, ma in questo caso, per sottolineare come naturali appaiono l’emissione e la respirazione: non si avverte sforzo alcuno in quello che fa, che è davvero tanto. Sin da “Pace, pace mio Dio” da La forza del destino soggioga il pubblico per la cedevolezza e la varietà del fraseggio, per la tavolozza di colori a cui sa attingere in virtù di una tecnica controllatissima che le permette fiati lunghi, tanto da salire senza sforzo dal fa al Sib acuto sull’ultimo “maledizione” dell’aria, dopo avere trovato accenti partecipi su “l’amo ancor”, rassegnati in “fatalità”, di fastidio in “misero pane, a prolungarmi vieni”. Il programma la vede nel suo repertorio di elezione e il prodigio di un’interpretazione maiuscola si ripete con la grande aria dall’Andrea Chénier “La mamma morta”: incede elegante sul proscenio, sorridente dietro la mascherina nera, ma all’attacco dei violoncelli il volto si trasfigura. L’incipit è un pianissimo carico di tristezza e pudore da cui si dipana un lungo e progressivo crescendo fedele alle indicazioni di Giordano, sino al climax sul Si naturale di “Ah, io son l’amore” perfettamente proiettato, sostenuto, luminoso. La magia si scioglie nuovamente nei calorosissimi applausi del pubblico. “Vissi d’arte” dalla Tosca è a confronto, giustamente, intensamente lirico, più contenuto ma non meno penetrante o meno tornito, una preghiera intima che si carica di accenti disillusi prima della domanda “Signore, perché me ne rimuneri così?”.
Conclude il concerto l’unico duetto previsto, quello del primo atto di Tosca in cui il diverso approccio al canto dei due solisti è posto a diretto confronto: Álvarez trascina il pubblico con la sua spontaneità, che a tratti lo mette a rischio di eccedere, al limite del controllo; Siri che non rinuncia a nessuno dei colori previsti da Puccini né alla sfumature che il suo strumento le permette di sfoggiare, senza tuttavia forzare o scadere in effetti retaggio di una tradizione di dubbio gusto.
Le ovazioni riservate agli interpreti, all’orchestra e al coro vengono ricambiate con un bis che ormai è una prassi consueta, il brindisi da La traviata, in cui i due solisti riescono a trovare, forse più che in Tosca, un’unione di intenti e una chiave di lettura univoca, concludendo trionfalmente un concerto memorabile per gli esiti artistici raggiunti e per le emozioni offerte.
Teatro Verdi – Attività artistica autunno 2020
CONCERTO INAUGURALE
Pagine di Verdi, Massenet, Giordano, Cilea, Puccini
Orchestra e Coro della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Direttore Jordi Bernàcer
Soprano Maria José Siri
Tenore Marcelo Álvarez
Maestro del coro Francesca Tosi
Trieste, 13 settembre 2020