Ha segnato il debutto nella regia d’opera della star hollywoodiana John Turturro il Rigoletto di Giuseppe Verdi che Rai Cultura propone mercoledì 30 dicembre alle 21.15 su Rai5, dal Teatro Massimo di Palermo. Il nuovo allestimento, andato in scena nell’ottobre 2018 e realizzato in coproduzione con il Teatro Regio di Torino, l’Opéra Royal de Wallonie-Liège e la Shaanxi Opera House, ha scene di Francesco Frigeri, costumi di Marco Piemontese, luci di Alessandro Carletti e coreografia di Giuseppe Bonanno. Sul podio dell’Orchestra e del Coro del Teatro Massimo è impegnato Stefano Ranzani. Regia televisiva di Claudia De Toma. Riproponiamo qui la recensione firmata per Connessi all’Opera da Giuseppe Montemagno. Si precisa che il resoconto è riferito a recite in cui il ruolo di Gilda era sostenuto da Ruth Iniesta e non da Maria Grazia Schiavo, come nella ripresa televisiva.
«Tous les matins du monde sont sans retour.» Era una sorta di monito, pacificatore e realista, per Monsieur de Sainte-Colombe, celebre gambista di fede giansenista del Grand Siècle francese, immortalato dapprima dalla penna di Pascal Quignard, poi dalla cinepresa di Alain Corneau. Ma se tutte le mattine del mondo cadenzano inesorabili l’inarrestabile trascorrere del tempo, che ne è di tutte le notti del mondo, di quel buco nero che fagocita e inghiotte ricordi e fantasmi, memorie e affetti? L’interrogativo sembra perseguire e perseguitare Rigoletto secondo John Turturro, forse il titolo più atteso del cartellone del Teatro Massimo di Palermo per il debutto del cineasta italo-americano sulle scene liriche. Vediamo infatti il buffone, sin dalle prime battute del Preludio, aggirarsi tra le rilucenti macerie di un palazzo tardo-rinascimentale, immerso nel sonno – o forse nel sogno? – di un palazzo incantato; e avanza provvisto solo di un posticcio dorato, che indosserà di lì a poco per sottolineare la presenza della gobba che lo fa deforme. A incorniciare il boccascena Francesco Frigeri pone una riproduzione della Sala dei Giganti di Palazzo Te, dove si finge l’azione, inquietante anticamera di un salone del Palazzo Ducale, pronto a illuminarsi di luci radenti, di stampo caravaggesco, per rianimarsi di nuova vita. È tra quei mostri (della ragione, avrebbe aggiunto Goya) che Rigoletto trascorre la sua esistenza, tra specchi appannati e parrucche incipriate, lì dove il tempo sembra essersi cristallizzato per sempre.
Pochi istanti servono a Turturro per fare emergere almeno un paio di idee sul capolavoro verdiano, e fors’anche sull’opera tout court – come genere di teatro, come categoria estetica, come visione del mondo. In poche battute recupera intanto quel concetto di ‘grotesque’, cardine della drammaturgia di Victor Hugo intraducibile in lingua italiana: da intendersi come inestricabile, shakespeariana compresenza di alto e di basso, di tragico e di comico, di sublime e di sordido, tutto sintetizzato nella difformità fisica – ma non morale – del protagonista come degli altri personaggi, nelle loro azioni e nei loro comportamenti. Ma tutto questo immerge e precipita in una visione museale non solo di Rigoletto, ma forse proprio dell’opera stessa: secondo un approccio che appare tipicamente americano, e che vede nel melodramma uno degli esiti più rappresentativi delle arti performative della vecchia Europa. Non del buffone soltanto, infatti, intende narrare: ma di un mondo che riemerge dai fumi di spesse nebbie padane per guadagnare la ribalta in maniera prepotente e appassionante, racconto di un mondo che fu e che vuole continuare a essere, nelle infinite repliche della finzione scenica.
Abituati agli stravolgimenti più improbabili del teatro di regia, colpisce l’atteggiamento di Turturro, fin troppo rispettoso della tradizione, che si avvicina all’opera quasi in punta di piedi: «Dirigere Rigoletto mi sembrava un nuovo passo molto naturale nella mia educazione, o avventura, musicale italiana. Ma ho ancora molto da imparare», candidamente dichiara l’artista nel programma di sala, che dopo Passione: a Musical Adventure, aggiunge Verdi nel pantheon della sua visione del panorama musicale italiano. Ne scaturisce una lettura essenziale ma non minimalista, punteggiata di riferimenti pittorici e cinematografici, in un formato ‘tascabile’ che ne garantirà l’agevole adattamento su altri palcoscenici, ma non per questo parca di suggestioni: il suggestivo impianto scenico di Frigeri, che alterna le prospettive diagonali per gli interni a una più ragionata riflessione per gli esterni, laddove immagina minuscole stanze – una casa di bambola per Gilda, dominata da un imponente affresco della Sacra Famiglia, e una catapecchia diroccata per Sparafucile, su cui campeggia il volto di un mostro di Giulio Romano – sperdute nel nulla, in un vuoto cosmico pronto a risucchiarle per lasciar spazio unicamente a un orizzonte livido e alle inquietudini della notte; le pregevoli luci di Alessandro Carletti, che illumina il palazzo con le infinite sfumature dell’oro e del lapislazzulo; e le coreografie di Giuseppe Bonanno, che fa della danza l’elemento intorno al quale ruota la vita di corte, notturno carillon fantasmatico che amplifica affetti e pulsioni. Chiave di volta dell’intera costruzione drammaturgica si rivelano però i sontuosi, ipertrofici costumi firmati da Marco Piemontese, declinati nelle tinte del blu e dell’azzurro, ma in cui progressivamente s’insinua un tocco di rosso: che si staglia nel color cardinale dell’abito di Monterone, suggella l’imponente cappello ad ali di Giovanna, annoda il corpetto di Maddalena e tinge di sangue la camicia di Sparafucile; ma soprattutto erompe dalla sottogonna di Gilda, simbolica macchia di colore a immagine della «speme più gradita» cui l’ha iniziata il Duca, fino a occupare, manto intessuto di fiori scarlatti, l’interno della cappa con cui affronta il sacrificio finale. Sarà questo che Rigoletto ritroverà dentro il sacco, al termine dell’opera: ultima reliquia di una mort parfumée che santifica l’eroina mentre la notte cede il passo a un’alba di disperazione.
Altri, sostanziali elementi concorrono a fare di questo Rigoletto un omaggio alla tradizione: a cominciare dalla bacchetta di Stefano Ranzani, alla guida di un’Orchestra che non lesina clangori e sottolineature d’effetto, a partire da quel tema della maledizione che risuona incandescente e incendia gli animi. Mettendo a profitto una frequentazione ormai pluridecennale con questo repertorio, il direttore milanese brilla per una dote, che qui risulta particolarmente utile: sa accompagnare il canto, in maniera duttile e forbita, ne sottolinea gli accenti, non lesina l’uso del rubato. Ne scaturisce una lettura fluida e attenta al continuum narrativo, abilmente giocata sui contrasti dinamici: in questo valorizzando il Coro, istruito in maniera egregia da Piero Monti, che consegna almeno un paio di episodi – il sillabato in pianissimo di «Zitti, zitti moviamo a vendetta», o ancora l’ironico, chiaroscurato racconto di «Scorrendo uniti remota via» – cesellati con maestria. Ottima risulta infatti la coordinazione con il palcoscenico, dove si muove una doppia distribuzione di pregio.
Primo Rigoletto è George Petean, che riscuote notevoli consensi perché ha, dalla sua, le ragioni del canto: o per meglio dire del belcanto. È provvisto infatti di uno splendido timbro, caloroso, denso, particolarmente adatto al repertorio verdiano; e dà prova di una meticolosa costruzione del personaggio, evidente sin dal primo monologo, che suggella con un mi acuto di strabiliante effetto. Sa essere padre affettuoso, nel confronto con Gilda, ma anche dolorosamente piagato, nella grande Aria del secondo atto, e mette a profitto una proiezione ragguardevole nella stretta del Duetto. Incarna, insomma, un buffone ragguardevole, tutto costruito su un approccio saldissimo del ruolo. Lo affianca l’encomiabile Gilda di Ruth Iniesta, ormai una beniamina del pubblico palermitano nei ruoli di coloratura. Qui conferma una vocalità cristallina, il garbo di un moderato empito drammatico, il nitore con cui affronta le fioriture (limpido è il trillo con cui conclude «Caro nome»); spiace solo che, nel registro sovracuto, l’emissione tenda a irrigidirsi in acuti che, in fortissimo, spesso diventano striduli e poco gradevoli. Ed è un vero peccato, perché la composizione del ruolo appare intensamente vissuta e emotivamente partecipe: il cantabile del Duetto del secondo atto ne rappresenta, sotto questo profilo, il vertice espressivo.
Nella singolar tenzone che oppone due Duca di Mantova, invece, è difficile scegliere. Perché il giovanissimo Ivan Ayon Rivas ha dalla sua una simpatia assolutamente contagiosa: cui si aggiungono una tecnica agguerrita, una dizione semplicemente perfetta, una straordinaria facilità negli acuti, che svettano luminosi negli assiemi. Il tenore peruviano è una forza della natura, appassionato e travolgente nella cabaletta dell’Aria del secondo atto, ma anche elegantissimo quando, nella Canzone del terzo, attacca con spavalda sicurezza la celeberrima Canzone: diventa perno del Quartetto, in cui brilla di luce propria. Maturerà con il tempo –non tutto gli si può chiedere a quest’età – una maggior varietà espressiva, uno studio sulle dinamiche ancora da perfezionare: ma il metallo è pregiato e già questo gli assicura i favori incondizionati del pubblico. Più meditato è il personaggio tratteggiato da Stefan Pop, che si alterna in alcune recite. Certo pavarotteggia alquanto (anche per via di un fisico non proprio filiforme), ma se lo può permettere: perché con il compianto tenore modenese condivide una luminosità, una franchezza e una freschezza timbrica che lo supportano nel costruire la figura di un libertino sempre elegante ma spavaldo, guascone e irriverente. Ha, dalla sua, una visione sfaccettata del ruolo: di cui evidenzia le mezzetinte, un gioco di sfumature particolarmente suadente nel Duetto con Gilda, morbidamente accorato nel cantabile della grande Aria. È, insomma, una simpatica canaglia – e se non fosse per la drammaticità del finale, è bello sentirlo ancora in vita nonostante il complotto ordito ai suoi danni.
Di buon livello sono le partecipazioni di fianco: Luca Tittoto è uno Sparafucile di bell’impatto, nonostante talora ruvido nell’emissione, mentre Martina Belli conferisce sobria corposità al ruolo di Maddalena. Alla matronale Giovanna di Carlotta Vichi appare preferibile l’imponente Monterone di Sergio Bologna; di ottimo livello l’eccellente Marullo di Paolo Orecchia, con l’insinuante Borsa di Massimiliano Chiarolla e il giovanile Conte di Ceprano di Giuseppe Toia. Con la querula Contessa di Adriana Calì meritano almeno un cenno lo spigliato Paggio di Emanuela Sgarlata e l’Usciere, in cui validamente si alternano Antonio Barbagallo e Gianfranco Giordano.
E tuttavia questa ripresa di Rigoletto vantava almeno un altro elemento di interesse: due recite straordinarie affidate a un interprete di riferimento del ruolo, Leo Nucci, che al Massimo si era già esibito nel ruolo del buffone nel 2009. Ed è stato subito – e da subito – trionfo. Inutile cercare, ormai, una freschezza che non può più esserci, né uno smalto, inevitabilmente appannato dal trascorrere del tempo. Ma proprio per questa ragione il suo Rigoletto si sposa a meraviglia con la visione di Turturro: perché è un modo per riandare alla scoperta di un ruolo, che ha ormai consegnato alla storia, restituendogli un’umanità che trasforma un pezzo da museo in un’opera d’arte. E te ne accorgi non solo da un dominio della parola scenica semplicemente straordinario – basta che attacchi quell’«In testa che avete, signor di Ceprano?» – ma anche dall’idiomaticità di accenti, fraseggio, sfumature: la ripresa di «Veglia, o donna, questo fiore», in cui il rispetto delle indicazioni della partitura (pp e dolcissimo) ne fanno un addio struggente; l’arco melodico di «Piangi, fanciulla», sontuosamente sul fiato, in cui l’uomo prende il sopravvento sul buffone; e l’intera scena finale, in cui le pause frantumano il discorso musicale e riflettono la disfatta di chi – invano – agognava giustizia. Poco importano le ragioni del canto, quando questo diventa teatro, autentico e vibrante: come puntualmente accade dopo l’attesissima «Vendetta», al termine della quale il tempo sembra miracolosamente sospeso, braccia e mani si protendono verso il palcoscenico in un applauso interminabile, pieno di gratitudine. E lì il baritono tutti blocca per annunciare che la prima volta l’ha eseguita come richiesto dal direttore, adesso sarà lui a guidare l’esecuzione: bissa dunque la stretta a furor di popolo con un tempo al cardiopalmo, mitragliata con impeto e tutta la forza, l’energia, il fuoco in corpo di chi vuol cambiare il mondo. Solo allora ti accorgi che il melodramma verdiano è ancora in grado di regalare ultimi splendori, trepidanti bagliori dorati: emozioni, in una notte che si vorrebbe durasse in eterno.
Photo credit: Rosellina Garbo